ART IS MY ILLUSION

ART IS MY ILLUSION

Art is my illusion/illusions are your art: così recitano le due iscrizioni luminose di un dittico in plexiglass opalino, autentica chiave di lettura dell’intero progetto. Per ogni artista il proprio lavoro è illusione in quanto pensiero felice, fonte di salvezza, antidoto contro il male di vivere, ma, allorché la sua creazione lascia lo studio, essa assurge repentinamente a fonte di molteplici illusioni, quelle di tutti coloro che si pongono di fronte al pezzo come fruitori. Da questi pensieri scaturisce l’idea per una grande fotografia che ritrae una quindicina di giovani in un bosco, ognuno dei quali reagisce con differenti atteggiamenti ad un fenomeno che si presume essere degno di immenso stupore, ma che, essendo relegato fuoricampo, permane un qualcosa di non meglio identificato. Lo spettatore è invitato a scogliere il dilemma riconducendolo a ciò che preferisce: ad un poetico cielo iridescente come ad un prosaico hamburger di Mc Donald’s. Oppure l’oggetto della meraviglia potrebbe identificarsi con la zolla di terra squadrata ritratta nella fotografia attigua. Essa, lasciando un vistoso buco nel suolo, ci appare miracolosamente sollevata da un gruppo di palloncini bianchi. Tale prodigiosa visione trova peraltro una puntuale replica nello spazio reale stesso della galleria, ove una zolla analoga a quella fotografata campeggia sospesa a mezz’aria. La triade fotografica si chiude con un un’immagine in cui una fiabesca figura di ragazza dai capelli fulvi accoglie nel palmo della mano una misteriosa luce. “I miei scatti”, spiega il giovane artista, “sono molto studiati. Li progetto giorni prima nei minimi particolari. Li visualizzo preventivamente. Per me la fotografia non è un cogliere l’attimo. Solo costruendo nella mia mente la composizione riesco ad interpretare (non a documentare) la vita. Le cose che penso sulle situazioni quotidiane non sono quelle che effettivamente si vedono. Se voglio rappresentare due persone che si baciano scelgo due tipi che neanche si conoscono e li faccio baciare. E’ assurdo perché quello non è un vero bacio, tuttavia in quel modo riesco a comunicare il concetto di bacio come non saprei fare altrimenti.” Il filo conduttore dell’intero progetto, identificabile con una tensione costante verso un qualcosa di ulteriore, di trascendente, di altro rispetto alla grettezza del quotidiano, è ribadito nel ciclo di tre disegni su carta cotone ricavati dal semplice ricalco della sagoma di un’ombra desunta da una foto. “Adoro la delicatezza”, afferma Correale a proposito della qualità del suo ductus, “e poi credo sia la soluzione che meglio si addice al senso generale della mostra.” I primi due ricalchi si riferiscono ad una ragazza con un palloncino, simbolo di leggerezza per eccellenza. Il terzo, dedicato alla figura del rabdomante, va letto, rispetto ai due precedenti, tanto in relazione quanto in contrapposizione. Completano la mostra venti piccoli quadretti fotografici di palloncini impreziositi da una cornice di foggia barocca. Recando tracciati occhi, naso e bocca in maniera elementare, ognuno di essi diviene il prototipo di una particolare individualità. Come per la foto dei ragazzi nel bosco si determina l’annullamento dell’identità, così, in questo caso, ogni palloncino esibisce una diversa identità. Siamo di fronte, suggerisce l’artista stesso, ad una sorta di “albero genealogico.” STEFANO TACCONE