Damiani Giulia

Teatro

Damiani Giulia

Destinazione

São Paulo - Brazil

Periodo
-
Tornata
Il progetto (e info su ente)

IL PROGETTO

Il progetto consiste nella presentazione di uno spettacolo scritto e diretto dall’artista presso il Centro Cultural di São Paulo e in una residenza artistica presso l'istituzione FAAP. Questo progetto è il risultato di una pluriennale ricerca in un archivio di artiste femministe di Napoli, Le Nemesiache, e di uno scambio duraturo con artisti di São Paulo. Durante la residenza è stata avviata una collaborazione con artisti locali per creare collegamenti tra la storia femminista napoletana e São Paulo tramite il mezzo della performance. Lo spettacolo avrà sbocchi in pubblicazioni e altri eventi in Europa.

ENTE OSPITANTE

Il Centro Cultural São Paulo è un'istituzione pubblica subordinata alla Segreteria Comunale della Cultura della città di San Paolo che riunisce la Pinacoteca Comunale, la discoteca Oneyda Alvarenga, la collezione della Missione di Ricerca Folklorica di Mário de Andrade, un insieme di biblioteche, spazi espositivi, spazi per vari corsi, teatri e cinema.

È considerato uno dei principali spazi culturali della città e una delle prime istituzioni di San Paolo ad essere considerato "centro culturale" nel senso pieno del termine. È stato inaugurato nel 1982.

Intervista

Giulia Damiani è una scrittrice, curatrice e drammaturga con sede a Londra e Amsterdam. Attualmente sta completando la sua tesi di dottorato per il Dipartimento d’Arte alla Goldsmiths University di Londra.

 

Nel tuo sito scrivi che le tue collaborazioni con gli artisti mettono insieme pratiche di creazione del mito, magia, paesaggio e linguaggio di un’invocazione di un’invocazione. Puoi descrivere la tua pratica da queste parole?

Mi sono avvicinata al teatro dal lato della messa in scena, grazie all’archivio di un collettivo di artiste: le Nemesiache, che erano un gruppo femminista di Napoli. Loro lavoravano molto con il mito. Hanno ripreso figure della mitologia greca e romana come la Sibilla, la profetessa di Cuma, o Didone, la regina di Cartagine. Avevano scelto il mito per veicolare un’energia femminile positiva, che fosse diversa dalla narrazione storica che  veniva fatta dagli autori maschili.

Così mi sono interessata anche io a come il mito abbia con se elementi dell’immaginario che non sono ben strutturati, ma che si realizzano con la trasmissione da persona a persona e cambiano con ogni racconto. Il mito è quindi una forma per raccontarsi, per appartenere ad una comunità. Il loro lavoro mi ha aperto questa visione di parlare della storia, ma anche di fare teatro che avesse come origine questa forma di narrazione degli antichi cantastorie, oggi chiamato storytelling. Quindi volevo rivedere il teatro con la figura dello storyteller, personaggio che che appartiene ad una comunità che cambia la storia man mano che viene raccontata.

È diventata una maniera per lavorare con gli altri perchè questa pratica mi interessa non solo a livello di spettacolo, ma anche a livello di esperienza. Ovvero esplorare la sua radice sacra e spirituale all’interno di una comunità.

Spesso il mito si connette al paesaggio. Mantenendo l’esempio delle Nemesiache, le figure mitologiche appartengono a località ben precise: la Sibilla Cumana ha sede vicino Pozzuoli.

Quando una storia è narrata da un gruppo di persone in un luogo ben preciso, diventa anche un modo per interagire con il contesto. Una maniera per raccontare il legame tra se stessi e l’ambiente. Riscoprire quegli elementi naturali spaventosi e imprevidibili e comprendere come si legano alla vita delle persone.

Quando parlo dell’invocazione dell’invocazione faccio prima riferimento all’invocazione di figure del passato, come quello dello storyteller, o figure femministe del passato che influenzano quello che facciamo oggi e poi richiamo il desiderio che forse diventino più reali, non siano solo parentesi all’interno di una stagione teatrale.

La prima invocazione è del passato e la seconda è l’invocazione del futuro affinché questo visione possa essere ripresa da altri in futuro.

Infine, parlando di collaborazione con gli artisti, per me è importante, perchè vengo da un punto di vista più accademico critico e mi piace l’idea del collettivo che una volta in Italia era molto più comune. Ovvero si tratta di mettere insieme diverse energie e allontanarsi dall’assetto di uno scrittore che collabora con un regosta o uno scenografo per un progetto, ma invece formare uno scambio più duraturo, su tutti i temi in un gruppo di artisti.

 

Le Nemesiache sembrano il cuore del tuo lavoro, dalla tua prima ricerca all’Università di Londra al tuo progetto a San Paolo. Proprio nella presentazione della tua ricerca dicevi che le Nemesiache si distinguono dalle altre femministe italiane, sia all’epoca, ma anche oggi, per la loro impronta artistica. Puoi spiegarci come mai?

In Italia, sono esisiti diversi colletivi, ma le Nemesiache hanno considerato l’arte un campo di battaglia dove la creatività femminile è ciò che le contraddistingue. Ci sono stati altri gruppi femministi che hanno prodotto arte, ma qui parliamo di persone che funzionavano come un collettivo. Non si parlava di collaborazione artistica, ma era un percorso alla scoperta del mondo da un punto di vista femminista. E quindi non è la produzione di un singolo, ma agivano e si firmavano da collettivo.

La produzione artistica era frutto di una ricerca che nasceva molto prima, una ricerca sui testi, sul linguaggio, e nel modo di interagire l’una con l’altra. Hanno tracciato un percorso unico di condivisione all’interno del femminismo, dove  storicamente i gruppi si creano e si dissolvono altrettato facilmente intorno a personalità forti. Le Nemesiache sono state invece insieme per un ventennio. Il loro lavoro mi ha fornito un’lluminazione su come intendere il territorio e il rapporto tra performance e luogo. La ricerca sul femminismo riguardava il corpo, quindi come convogliare l’energia creativa femminile nel teatro, ma puntava anche a riappropriarsi di una connessione con il mondo esterno, con la natura, con i siti archeologici di Napoli. Il loro è un percorso che mette in discussione le referenze per noi umani, mettendo in primo luogo il femminismo, la riscoperta del paesaggio e della storia. Napoli si svela in maniera diversa e più interessante.

 

Come sei riuscita a legare il messaggio e la metodologia delle Nemesiache con gli artisti locali di San Paolo?

Ci sono diversi elementi. Il primo è un legame con la forza del paesaggio e degli elementi naturali in Brasile. Ad esempio a Marzo, quando ero presente, c’è stata la stagione delle piogge in cui la città si è allagata e la gente rischiava di finire dentro ai tombini. C’è anche un parallelismo per l’interesse nella forza misteriosa delle cose, come un legame con l’attività sismica che è presente come tema a Napoli. Poi c’è il discorso femminile e femminista e la relazione con il corpo. In Brasile hanno una serie di rituali importati dall’Africa Occidentale di danze e una relazione con il corpo importante. E il lavoro delle Nemesiache era improntato alla scoperta di se attraverso il corpo e performance teatrali. Così questa visione di donne che cerca di riscrivere la narrativa del passato, con il corpo all’interno di un ambiente naturale un po’ pazzo, si è alleato con i linguaggi a San Paolo.

 

Lì hai preparato uno spettacolo, puoi dirmi di cosa tratta e come si svolge la performance?

La protagonista si chiama Emma B ed è una profetessa. È la storia di profetessa che perde contatto con le figure maschili del passato, ovvero le divinità che danno i messaggi che lei comunica. Abbiamo immaginato lo spazio scenico inteso come un tempio. Abbiamo preso come ispirazione il tempio di Mercurio di Napoli, che è un posto dove le Nemesiache hanno lavorato. L’edificio è strutturato con un oculo sul soffitto e metà del tempio è riempito d’acqua.

Attraverso i suoi viaggi mentali Emma B cade nell’oculo all’interno del tempio e prosegue in una serie di tunnel sotterranei. Emma B è aiutata da Mercurio, la figura androgena dello spettacolo, che  fa da mediatore tra Emma e il mondo del cosmo. Poi c’è Urubu, che vuol dire avvoltoio in portoghese e che è un animale molto presente nei cieli di San Paolo. In Brasile gli avvoltoi sono figure mitologiche talvolta spaventosi che si connettono alle arpie. Così abbiamo inserito come aiutante magico di Emma B questo essere metà donna metà uccello.

Emma B cerca di produrre una profezia, di dare una risposta in mancanza di un messaggio divino dal cosmo. Ed è sia una riflessione tra femminile e maschile sia sulla comunicazione in generale. Ci immaginavamo i tunnel sotterranei come un tubo catodico dove avvenivano le comunicazioni. E una parte dello spettacolo è una chiamata al costumer service dove c’è Mercurio che disperato cerca di contattare la divinità e gli risponde il servizio clienti dando risposte serie sull’incertezza nel tempo di oggi.

Lo spettacolo parla della necessità di non avere una risposta per sapersi orientare. Parla del mancamento di questo contatto con la divinità e di un’energia dal basso che provoca questo cambiamento verso qualcosa di diverso.