FIENO MIRIAM SELIMA, DI CHIO NICOLA (FIENO/DI CHIO)

Musica
Teatro

FIENO MIRIAM SELIMA, DI CHIO NICOLA (FIENO/DI CHIO)

Destinazione

Malmö - Sweden

Periodo
-
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Il progetto (e info su ente)

IL PROGETTO

Fuga dall’Egitto è uno spettacolo che unisce il teatro documentario alla musica, in un intreccio tra parola, cinema del reale e sonorità orientali live. Trae ispirazione dal libro “Fuga dall'Egitto - inchiesta sulla diaspora del dopo-golpe“ della giornalista Azzurra Meringolo e getta luce sul fenomeno della diaspora egiziana composta dagli esuli di ultimissima  generazione.  L’intento è di realizzare assieme all’attivista esule e musicista egiziana Yasmine El Baramawy uno spettacolo che racconti la verità di questi  giovani rivoluzionari. Il lavoro, che si trova nella fase intermedia, ha richiesto un anno e mezzo di ricerca e creazione. Dopo un primo ciclo di residenze, la raccolta di nuovo materiale audiovisivo e la definizione della drammaturgia, il percorso si chiuderà a Malmö presso una delle residenze artistiche dell’Amministrazione Culturale in collaborazione con ICORN.

ENTE OSPITANTE

L'amministrazione di Malmö lavora per promuovere le attività culturali della città e incentivare i cittadini alla partecipazione attiva. 

Le principali proposte vanno dal garantire che i bambini e i giovani siano coinvolti nella vita culturale e diano spazio alla loro creatività, alle grandi mostre d'arte internazionali, alle questioni archivistiche, alle ampie attività di musei e biblioteche e al sostegno del settore culturale indipendente. Il progetto avviene in collaborazione con l'International Cities of Refuge Network (ICORN): un'organizzazione indipendente di città e regioni che offrono rifugio a scrittori e artisti a rischio, avanzando la libertà di espressione, difendendo i valori democratici e promuovendo la solidarietà internazionale.

 

Intervista

 

Che percorsi avete avuto per arrivare alla vostra attuale pratica? 

Miriam: Abbiamo fatto l'Accademia Nico Pepe insieme, diplomandoci nel 2011 e fondando nel 2012 una compagnia teatrale che adesso non esiste più.

È già da un po’ di anni che sperimentiamo col mischiare il linguaggio del documentario con quello del teatro — non ci piace particolarmente incasellare quello che facciamo però il nome di teatro documentario viene utile per spiegare più o meno quello che facciamo.

 

Lo spiegate anche a noi? 

Miriam: Partiamo da storie vere, e i personaggi in scena sono veramente le persone che sono — partono dalla loro esperienza vissuta per raccontare la propria storia, utilizzando fonti autentiche e documenti video e fotografici.

In particolare ultimamente noi stiamo lavorando sul Mediterraneo e approfondendo tematiche che riguardano Nord Africa e Medio Oriente, partendo sempre dalle storie vere dei protagonisti.

 

Da cosa è nato questo interesse? 

Miriam: Alle superiori leggevamo dai libri di storia e ci indignavamo, ci chiedevamo come fosse possibile che nessuno avesse fatto niente, detto niente, che nessun altro popolo si fosse ribellato a quello che succedeva. Eppure adesso stiamo assistendo alle stesse cose: in forme diverse, in paesi diversi ma alle stesse identiche cose. 

Questo mi fa così tanto male che cerco di tirarlo fuori in qualche modo attraverso il mio mestiere: di sensibilizzare il pubblico ad una cosa che secondo me ci appartiene e ci riguarda, anche se al di là del Mediterraneo.

 

Come siete arrivati all'idea di utilizzare il medium del teatro per raccontare contenuti nonfiction?

Miriam: Siamo figli di un’epoca dell'informazione in cui possiamo reperire qualsiasi tipo di notizia in ogni momento senza sapere davvero quale sia effettivamente la verità. 

Quando vai in scena e dici che quello che stai raccontando è successo realmente e che i personaggi che sono sul palco sono tutti veri un rapporto molto particolare con lo spettatore: non c’è il velo della finzione [fra performer e pubblico].

Nicola: Ci siamo resi conto, da artisti che provano a raccontare la contemporaneità, che anche prima della pandemia il mondo stava cambiando drasticamente: a livello sociale, antropologico, geografico, politico, di relazione. Credo che chi fa arte deve tenerne conto, e tener conto di questa cosa significa cambiare sia cosa si prova a raccontare in teatro sia il modo di raccontarlo. 

Anche lo spettatore sta cambiando, e noi non possiamo far finta di nulla: già il teatro è molto distante dalla realtà e lo spettatore è molto distante dal teatro, rimanere su quello che era è una possibilità persa un modo per allontanare lo spettatore, che alla fine è chi fa sopravvivere il nostro mestiere.

Quindi questo tentativo di raccontare in un'altra maniera, partendo dal reale, dal vero, da ciò che magari non ci riguarda ma che poi studiando e approfondendo ci rendiamo conto che ci riguarda.

 

È stata una realizzazione graduale o una fulminazione sulla via di Damasco? 

Miriam: Sicuramente è frutto di un'evoluzione. Abbiamo realizzato diversi anni fa un primo lavoro dove utilizziamo il video e realizziamo una sorta di documentario in diretta: questo ci ha portati sempre di più ad avvicinarci alla voglia di raccontare la verità. 

Sicuramente l'utilizzo di una telecamera dal vivo sul palcoscenico aiuta in questo senso: permette di ingrandire, di concentrarsi su un particolare: quel particolare che banalmente nella vita quotidiana ci sfugge 

La possibilità di prendersi il tempo per ingrandire questo particolare per noi è importante. Il medium del teatro ha la forza di avere a che fare con la persona in carne ed ossa — noi utilizziamo la tecnologia, però diamo sicuramente una centralità al performer sulla scena, perché è quel gancio che tira dentro lo spettatore. 

Parliamo del teatro come di un ‘rito collettivo’ perché nel momento in cui racconto la mia esperienza personale quello che mi preme è che lo spettatore la viva assieme a me, che più che uno spettacolo sia un'esperienza che il pubblico possa fare assieme a noi. 

 

Come pensate che questo ‘rito collettivo’ si adatterà all’attuale paesaggio mediale?

Nicola: Secondo me il teatro sta andando e andrà alla grande, se lo guardiamo in prospettiva — lo so che sembra controcorrente, paradossale, però secondo me il teatro, proprio perché figlio della vita, ha grandissime potenzialità di presa su un pubblico contemporaneo.

Non servono manuali, direttive o politiche per cambiare la prospettiva del teatro: il teatro si è già modificato e si modificherà sempre di più.

È in questo senso dico che ‘sta con la vita’: il nostro modo di esistere è cambiato, e il teatro naturalmente con esso.

Il problema, semmai, è che chi fa il teatro non va o non è pronto a andare in quella direzione: politici, direttori artistici, direttori di festival, attori, registi e drammaturghi — io per primo — non siamo ancora totalmente pronti a questo cambiamento.

Il teatro sta con la vita e la vita va avanti: i laptop cambiano, le strade cambiano, le piazze cambiano, succedono nuove tragedie e nuove catarsi, cambia chiaramente anche l'essere umano. Il teatro è una forma d'arte che — dal vivo — ti racconta la vita, qualunque essa sia, e ti emoziona e ti stimola una riflessione e ti confonde e ti mette in difficoltà. 

Tutte queste sono azioni naturali, sono predicati della vita: è per questo che secondo me il teatro andrà alla grande nei prossimi anni.

 

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