FRANCHI VERONICA

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Teatro

FRANCHI VERONICA

Destinazione

Bratislava - Slovakia

Periodo
-
Tornata
Il progetto (e info su ente)

IL PROGETTO

Circuitazione estera della performance Rompere il Ghiaccio di OHT [Office for a Human Theatre] in cui l’artista collabora per la parte drammaturgica. La narrazione esplora i confini -politici, geografici, romantici- di una regione transfrontaliera come il Trentino-Alto Adige/Südtirol e procede nell’intreccio di diversi piani e linguaggi per sciogliersi in un potente yodel finale. Il progetto si muove in vista di date all'estero dello spettacolo per adattarne il testo e farlo crescere in nuovi linguaggi e contesti.

ENTE OSPITANTE

La Kunsthalle Bratislava è un'istituzione culturale finanziata dallo stato. Non ha una collezione permanente e si concentra sulla presentazione di un'ampia gamma di approcci all'arte contemporanea. Si trova nell'edificio storico della Casa delle Arti del 1958, che si trova nella parte più vivace del centro cittadino. La Kunsthalle Bratislava cerca di formulare nuove traiettorie dialogiche tra diverse regioni geografiche o posizioni politiche; il suo obiettivo è funzionare come uno spazio comune inclusivo di immersione e coinvolgimento tra (non) professionisti. Oltre alla drammaturgia delle mostre temporanee, il percorso culturale dell'istituzione si concentra sulla cooperazione con altre istituzioni, sulle relazioni interprofessionali e sulla mediazione dello scambio discorsivo ed educativo.

Intervista

LA PAROLA E I CONFINI

Intervista a Veronica Franchi

 

Come sei arrivata alla drammaturgia?
Dopo le superiori, ho cominciato con studi teatrali, sono passata ad architettura e poi sono tornata di nuovo al teatro. È stato un percorso forse poco lineare, ma mi ha lasciato molto: sono una che persona che ama collezionare, e mi è difficile eliminare esperienze. Dall’architettura, per esempio, mi porto dietro un grande insegnamento: progettare uno spazio è scrivere uno spazio. E la drammaturgia è una scrittura che deve essere morbida ed elastica, deve sapersi muovere ovunque. 

 

E come è iniziata la tua collaborazione in Rompere il Ghiaccio?
È stato un incontro casuale, all’inizio non immaginavo che avrei collaborato alla cura drammaturgica di questo spettacolo. È stato un progetto originale fin dall’inizio, iniziato poco prima del lockdown del 2020. Filippo Andreatta, direttore di Office for Human Teatre (OHT),  mi disse che voleva lavorare su una storia che parlasse del confine alpino, mostrando la labilità di questo e di molti altri confini. Era la storia dei suoi nonni. Il nonno, accusato di comunismo durante il regime fascista, era stato mandato al confino in Basilicata, mentre la nonna era rimasta a Rovereto. E del loro rapporto restavano ancora molte lettere. Perché non partire proprio da quel carteggio per raccontare la storia di un confine? Ho passato i mesi successivi a studiare le lettere, cercando di comprenderne le forme, riflettendo sul valore della parola scritta. 

 

Parlavi di parola scritta: quale è stato il vostro lavoro sulla parola, in questo spettacolo? Cosa significa trasporre un carteggio in una performance teatrale?
Durante questo progetto, mi sono resa conto di quanto la parola scritta sia manchevole. Per questo abbiamo cercato di creare più spazi all’interno della drammaturgia: volevamo creare una parola distesa. Rompere il Ghiaccio si sviluppa su tre livelli: le carte geografiche, le lettere, e un confine che non esiste. Poi però, a legare tutto, c’è una mano che traccia un movimento. Una storia, raccontata dalla prospettiva di una ragazza altotesina. È lei che, nei panni di nonna Elsa, sale sul palco e incarna le immagini del confine, i suoni, il paesaggio, trovando nuovi strumenti per esprimere i contenuti del carteggio. Il lavoro su queste lettere - e sulla parola in generale - sta nel tentativo di rendere volatile una parola che è sempre stata scritta

 

Un altro elemento fondamentale in questo spettacolo sembra essere il paesaggio
Sì, oltre alle sfumature della parola scritta e distesa, lo spettacolo indaga in profondità anche il rapporto fra teatro e paesaggio. Per farlo, non abbiamo voluto puntare su una particolare coreografia, privilegiando piuttosto altre suggestioni. Questo percorso mi ha permesso di comprendere quanto sia difficile ascoltare un paesaggio che non ti appartiene. Nei sopralluoghi, ho cercato di approfondire il rapporto fra le Alpi e fra chi ci abita, prendendo le misure con i luoghi e cercando di studiare i modi in cui quel territorio entrava nella vita di quelle persone. In scena, il paesaggio è rappresentato dai suoni: non solo lo yodel che esplode dalla voce della ragazza e apre spazi infiniti, ma anche un campanaccio che richiama i silenzi interrotti di quelle zone, con musiche arrangiate appositamente. Perché, in realtà, non siamo noi ad agire sul paesaggio.

 

Lo spettacolo ha prospettive future fuori dall’Italia?
La data fuori dall’Italia, quella a Bratislava, è stata trampolino di lancio per le prospettive dello spettacolo fuori dai confini. Anche in questo caso, ci siamo interrogati a lungo sul tipo di parola e linguaggio che volevamo portare in scena. Per le traduzioni, abbiamo pensato di procedere in maniera diversa rispetto allo studio dedicato al lavoro originale, cercando di far tornare in scena anche la parola scritta, lasciando le altre parti non tradotte. 

 

 

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