KOMOCO

Komoco
Danza

KOMOCO

Destinazione

New York - United States of America

Periodo
-
Tornato
Il progetto (e info su ente)

IL PROGETTO

La Tisch School of Arts, conservatorio branch della New York City University, ha invitato la giovane Compagnia italiana a svolgere un workshop di formazione professionale di una settimana con restituzione finale agli studenti. La prima parte del laboratorio si basa sulla sensibilizzazione dei partecipanti a partire da semplici elementi derivanti da tecniche somatiche, dal floor work e da
stimoli sensoriali, finalizzati a raggiungere una maggiore coscienza del corpo in relazione a sé stesso e allo spazio che lo circonda. La seconda parte del laboratorio è dedicata all’esplorazione di elementi utili alla composizione del movimento.

ENTE OSPITANTE

La Tisch School of the Arts è uno dei principali centri nazionali per la formazione professionale e la borsa di studio e la ricerca nelle arti dello spettacolo e dei media. 

Intervista

Come è nata Komoco?

Ho concepito l’idea di un mio progetto personale quando ancora studiavo a New York. Avevo molta voglia di creare, in tutti i sensi. Mia sorella è musicista e compositrice così un giorno le ho detto senti, c’è questo festival in Olanda a cui vorrei partecipare. Lei ha composto un brano, io ci ho fatto un duetto e quello è stato l’inizio di tutto.

Già a scuola avevo ricevuto riconoscimenti in ambito coreografico, ma non avevo ancora l’ambizione di presentarmi come coreografa. Le cose sono venute in seguito, naturalmente, senza forzature. All’inizio, semplicemente, lavoravo tanto e offrivo agli altri quello che ero. Mi sentivo molto giovane e sapevo di avere ancora tantissime cose da cui imparare. Da lì, vari progetti e compagnie hanno iniziato a prendermi come coreografa indipendente. 

Komoco, come compagnia, è nata durante la pandemia. Dopo nove anni, mi sono ritrovata di nuovo in Italia e sentivo che le restrizioni non sarebbero durate un mese soltanto come dicevano. In Italia io non ero nessuno, non risultavo come coreografa né come danzatrice, quindi mi sono detta: perché non formare una famiglia, una comunità con cui fare ricerca? Sapevo che circondarmi di persone giovani come me e con altre esperienze mi avrebbe permesso di arricchirmi e di mettermi alla prova. Mi aspettava un grande lavoro, anche a livello legale, ma ero molto convinta. Mi sono messa a ricercare associazioni che potessero sostenerci e ho avuto la fortuna di essere stata notata da Associazione Sosta Palmizi, che ha creduto nel primo progetto che avevo in programma subito dopo la pandemia.  In questo progetto ho coinvolto Adriano Piancastelli e Paolo Popolo Rubbio, due danzatori che avevo conosciuto durante un’altra residenza a New York, e con loro è stato davvero amore a prima vista. Quindi si può dire che Komoco è nata anche dall’incontro con loro due.

Adesso siamo in sette, e abbiamo appena debuttato a Stoccarda. Ci crediamo tutti veramente tanto, e speriamo di poter continuare a crescere.


 

Come è stato tornare a New York con la compagnia?

È stato come un ritorno a casa. Ho vissuto lì per cinque anni, anche se ai tempi frequentavo l’Alvin Ailey American Dance Theater.

Il progetto prevedeva una settimana di workshop all’NYU Tisch School of the Arts, una delle realtà più grandi del Nordamerica. A ognuno di noi – a me, Paolo e Adriano – era affidato un gruppo di studenti. Lavoravamo dalle dieci alle sedici a delle rielaborazioni del repertorio Komoco, con classi di anche una trentina di alunni. Sotto mie direttive, ognuno di noi ha preparato il restaging di una diversa creazione, riuscendo in soli cinque giorni a rimodellare un progetto pensato per un trio, uno pensato per otto danzatori e uno per cinque, allo scopo di preparare un piccolo showing finale con gli studenti, davanti ai direttori della scuola. Così lo sharing della ricerca di Komoco è stata una grande opportunità per me, per gli studenti e per i miei collaboratori, che hanno lavorato in modo del tutto indipendente.


 

Siete partiti da tecniche somatiche, floor work e stimoli sensoriali. Quanto è importante proporre pratiche che coinvolgono l’uso e l’ascolto del corpo?

È un aspetto essenziale nella ricerca di Komoco. Partiamo sempre dal corpo, dalle possibilità del corpo, dall’esperienza. Good habits, bad habits: io amo vedere quello che un artista propone avendo una profonda conoscenza e coscienza del proprio bagaglio culturale, accettandolo e sfruttandolo per proporre al gruppo nuovi stimoli. Ora prevale l’idea del “breaking the rules, make something different”, io invece credo nel ritorno alla semplicità, per creare qualcosa di nuovo partendo da ciò che esiste, quindi il corpo e le nostre abitudini. Perciò sì, in Komoco la ricerca parte dal corpo. Durante il nostro warm-up, che chiamiamo zooming-in, cerchiamo di ritornare a uno stato di tabula rasa, in cui il senso di gravità ci aiuti a ritrovare il nostro peso e un totale rilassamento mentale e fisico.

L’uso del floorwork, in particolare, si rifà al ritorno alle radici, al primordiale, a un senso di connessione con il pavimento, con la terra che viene anche dalle mie esperienze all’Alvin Ailey, dove facevo molta african dance. Gioco molto su questo rapporto con il centro, con la zona del corpo sotto l’ombelico, vicino al sesso, pere proporre un ritorno a terra, a uno stato fetale, quasi di creatura a quattro zampe, che riguadagna poi la verticalità come per una metamorfosi.

Non è niente di nuovo. Non sono qui per insegnare nulla, solo per stimolare.


 

Come vivi il rapporto fra creazione e insegnamento?

È un rapporto totalmente equilibrato. Il modo in cui mi approccio agli studenti è molto semplice: li tratto come artisti di Komoco. La sola differenza fra creare e insegnare è che nel secondo caso devo essere molto più specifica e chiara riguardo ad alcune cose, perché noi le applichiamo tutti i giorni e altri ovviamente no.

Noi lavoriamo sempre con la stessa attitudine, cerchiamo di aprire porte. Anche quando faccio restaging di miei lavori, con studenti o professionisti, io premetto che la riproduzione non sarà mai identica, perché gli artisti sono diversi, sono persone in carne e ossa che hanno da condividere con me e con il pubblico cose molto diverse, che non mi va di deturpare imponendo la mia idea. È sempre una conversazione, per me. Io sono il collante. Ho l’idea creativa e la propongo. Ho la responsabilità di creare il contesto. Poi penso la cosa più bella penso sia lasciare che il contesto si colori a seconda delle circostanze, delle persone e del momento in cui ci si trova insieme. 


 

Creazione, insegnamento e… condivisione. Il tuo rapporto con il pubblico?

Come con le tre punte di un triangolo, si crea un equilibrio. Un equilibrio che tiene Komoco vivo. Spesso ho incontrato artisti la cui idea è: we research for the sake of it, non necessariamente il lavoro deve essere offerto. Io, da artista, posso assolutamente dire che offrire al pubblico una mia creazione è un mio servizio. Non ho intenzione di comunicare qualcosa per forza. Preferisco fare ricerca su una suggestione che magari mi è venuta dai miei collaboratori, e poi offrire questa ricerca al pubblico. Poi, la cosa più bella è che ognuno sia libero di interpretare la ricerca soggettivamente. Così cerco di creare fra me e il pubblico un rapporto umano e di curiosità, molto simile a una conoscenza, a un dialogo.

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