MEDOLAGO SIMONA

© Marshall Stay
Musica
Teatro

MEDOLAGO SIMONA

Destinazione

Tallinn - Estonia

Periodo
-
Tornata
Il progetto (e info su ente)

IL PROGETTO

Il Master in Contemporary Physical performance Making EAMT attraverso la collaborazione con alcuni importanti registi, coreografi e performer del panorama internazionale mira a formare degli artisti autonomi e indipendenti non solo nella creazione di pièce teatrali e performance significative, ma in tutti gli aspetti organizzativi della performance stessa.

Nell’arco di due anni, 16 partecipanti provenienti da 10 nazioni diverse a livello mondiale, approfondiscono la conoscenza dell’ambito artistico internazionale per definire la propria pratica creativa attraverso un apprendistato in studio e sviluppare le proprie capacità attraverso creazione e sperimentazione. A conclusione del percorso, ogni studente dovrà utilizzare le competenze accumulate per l’ideazione e produzione di una performance pubblica. 

ENTE OSPITANTE

L'Accademia Estone di Musica e Teatro (EAMT) è un'università pubblica che offre istruzione superiore in tutti i principali campi della musica e del teatro attraverso programmi di bachelor, master e dottorato. 

L'Accademia è un'istituzione educativa, scientifica e culturale prestigiosa e attraente con un alto livello di professionalità. Dedita a preservare le tradizioni culturali nazionali e a sviluppare attivamente la cooperazione internazionale, promuove inoltre le idee creative, le diverse ricerche scientifiche e i progetti interdisciplinari innovativi.

 

Intervista

Parlami un pochino di te, del tuo percorso umano ma soprattutto di quello artistico.

Ho iniziato a fare teatro alle superiori, come attività extrascolastica. Finito il liceo ho iniziato a studiare Lingue, ma sempre con l'idea che conoscere le lingue straniere mi potesse aiutare nell'ambito artistico.

Finita la triennale ho frequentato una scuola di teatro a Milano, il Centro Teatro Attivo, dove ho fatto un corso professionale di due anni che è a tutti gli effetti come un’accademia; in quell’occasione ho cominciato ad approfondire gli studi di recitazione con Jurj Alschitz, un maestro russo che ha sede a Berlino però ha allievi e collaboratori un po’ in tutta Europa.

Alla ricerca di un’indipendenza economica ho deciso di fare il mio primo master in Lingue e Letterature qui a Milano, che mi ha aperto delle porte nel campo dell'insegnamento. Poi, assolutamente per caso ho ricevuto una comunicazione relativa a questo master a Tallinn con Jan Fabre ed una serie infinita di compagnie da tutto il mondo, a soli due giorni dai provini. 

Dopo dei provini di due giorni hanno selezionato 16 partecipanti: abbiamo iniziato a fine luglio 2019 e ci siamo laureati ufficialmente il 9 giugno 2021.

 

Come si sono innestati questi anni formativi sulla tua fisionomia di artista? Hai trovato un approccio diverso alla performance?

La cosa che ho apprezzato di più è stato il fatto che tutti gli artisti ed i registi con cui abbiamo lavorato non si imponevano mai, non ci dicevano mai esattamente come dovessimo fare le cose: eravamo trattati come dei professionisti che collaboravano alla creazione, parte del processo creativo.

In questo caso diciamo che l'orientamento era più verso le performing arts che verso un teatro tradizionale.

 

Ora che sei uscita, dove ti senti collocata nel continuum fra drammaturgia tradizionale e performing arts?

Sicuramente il mio approccio è cambiato: abbiamo collaborato con tantissimi artisti diversi, ciascuno con una sua metodologia. 

È tutto molto fresco e probabilmente devo ancora fare un percorso di rielaborazione per sapere esattamente dove sono situata, però mi piacerebbe esplorare un una via di mezzo, un modo di combinare una drammaturgia nel senso tradizionale con un modo espressivo un po’ più astratto.

Ogni tanto ho la sensazione che le performing arts siano fatte da artisti per altri artisti — a volte il concetto diventa più importante del fatto che il messaggio arrivi a destinazione. È necessario avere tutti i colori dello spettro.

 

Che tipi di lavori avete realizzato durante il master?

Come gruppo abbiamo realizzato una performance di 99 ore, che è iniziata il primo di settembre alle sette di sera e si è conclusa il 5 settembre alle 10 di sera, ininterrotta e trasmessa in live streaming. Ovviamente abbiamo fatto dei turni, ma ognuno di noi ha realizzato almeno 57 ore di performance.

il titolo era Where do we go from here ed era centrata su una serie di riflessioni che ognuno di noi aveva fatto individualmente su come reagire e andare avanti in seguito a quello che stava succedendo nel mondo — dal punto di vista artistico, politico, ambientale, personale. 

È stata un’esperienza densa, che ci ha fatto riflettere anche sul concetto di arte in sé: in teatro c'è sempre l'impressione di essere su un palco e dover fare qualcosa per ‘riempire’, una paura del silenzio. Quando hai un arco di tempo tanto ampio per testare questa cosa inizi a chiederti quanto quello che sto facendo sia effettivamente arte e quanto invece sia semplicemente un cercare di riempire un vuoto che magari non ha bisogno di essere riempito.

 

E invece la performance individuale che hai realizzato come progetto di laurea?

Mentre gli altri sono stati comunque progetti in collaborazione, questo è stato proprio il mio progetto — ci sono stata sopra più di un anno ed è stata un po’ il picco di questo percorso, mi rendo conto che non avrei mai potuto fare una cosa del genere prima.

La performance si chiama si intitola Suspended e si sviluppa intorno al concetto principale dell’esilio: non come spostamento geografico ma come una condizione psicologica e metafisica relativa all’essere “intrappolati”, a metà tra un luogo a cui non si appartiene l'impossibilità di tornare al luogo a cui si appartiene, con la possibilità di scoprire che, una volta tornati indietro, non si appartiene neanche a quello.

 

In collaborazione con una studentessa di scenografia abbiamo costruito questo ‘labirinto’, un cubo di 2 metri e mezzo per 2 metri e mezzo per 2 metri e mezzo in cui c'erano una serie di ostacoli all'interno del quale io mi muovevo: l’idea era di essere rinchiusa di uno spazio che determinava il mio movimento, ripercorrendo elementi e storie che mi sono stati dati dalle persone che dovevano essere coinvolte nello spettacolo.

Le persone in sala vedevano e sentivano cose diverse a seconda di dove erano posizionate, un po’ per le caratteristiche dello spazio un po’ per come era strutturato lo spettacolo: è stato un pezzo molto intimo, a volte le persone non sentivano quello che dicevo.

Paradossalmente però molte persone mi hanno detto che il non sentire bene, il non capire che lingua stessi parlando le ‘attivava’ in maniera diversa, le trasformava dal ‘solito’ stato di spettatori passivi. È una la cosa che mi piacerebbe esplorare anche in futuro.

 

Dove dove ti stai dirigendo adesso?

A parte i progetti performativi, in questo in questo momento mi interessa molto anche l'ambito pedagogico — sto cercando di fare un po di rielaborazione di quello che mi sto portando a casa anche per creare dei progetti da proporre in scuole e scuole professionali.

Anche perché molto spesso gli artisti e gli attori che escono dalle accademie sono anche un po’ bloccati su quello che è stato insegnato loro, un po’ chiusi dentro la ‘scatoletta’ che gli viene costruita intorno.

 

È un afflato che vedo molto nella nostra generazione di artisti, questo uscire da un sistema formativo, scontrarsi col mondo reale e voler tornare indietro per cercare di dare quello che ti è mancato.

È anche l'unico modo per fare andare avanti. 

Dopo quello che è successo nell'ultimo anno, certo, riapriamo i teatri, ma come riapriamo i teatri?

C’è bisogno di combinare anche quello che era prima e quello che è successo di recente a livello sia di contenuti che di forma. Questo non vuol dire cancellare tutto quello che c'era prima, ma sapere che c’è anche altro

 

© Alan Proosa

 

© Alan Proosa

 

© Alan Proosa

 

© Alan Proosa