Lu Cafausu Luigi Negro

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Lu Cafausu
Luigi Negro
Città
Lecce
Nome del gruppo
Lu Cafausu
Nazione di nascita
Gran Bretagna
Provincia
Lecce
Età
36
Profilo
This project is about things that acquire a value of aesthetic configuration but that also contain aspects related to anger, ethics, politics, and all those things that are pertinent to life.
Lu Caf'Haus(u) è territorio d'accumulazione di senso, di svolgimento di senso.
Di mancanza di senso.
È quello che siamo e non siamo simultaneamente, (scandalosamente) senza scandalo.
È ciò che stiamo diventando e quello che siamo non stati.
Al centro esatto di un lungo corridoio d’insalienze e fallimenti (una volta erano cipressi), passaggio per il limbo.
È il nulla, segno oscuro, campo della disfatta.
È un presagio inaccessibile, luogo alieno...
È il varco per l'ade
Circa un anno fa (appena prima dell'estate) Efrem, un ragazzo barbuto, nel cortile del Care Of mi disse che era di San Cesario: "abito in periferia, allucafausu". Pensai: "abita in un falso Luca, al-Luca-fausu (al-Luca-falso).
Nei giorni che seguirono il falso Luca mi tornò spesso inspiegabilmente in testa.
Dopo un paio di mesi a San Cesario eravamo in auto. Alessandra aveva una parrucca az-zurra (blu come dice lei), erano le due di notte e tornavamo da una festa. Avevamo bevu-to vino rosso, rum e chinotto, io anche masticato menta.
“Adesso ti faccio vedere una cosa” disse
“conosci lu cafausu?“
colsi l'occasione al volo.
Il falso Luca ci fu davanti appena dopo un paio di curve e sensi vietati (guidava lei). Ci so-no una decina di palazzine intorno a quella che credo si possa definire una piazza. Al cen-tro una piccola struttura (oggetto mi viene da scrivere) di muratura sgretolabile, una spe-cie di pagoda vagamente stravagante, fragile, decadente, quasi indecente.
Il quartiere di Efrem non prendeva il nome da un mentitore, ma da una Coffee-House che per decenni (secoli?) è stata tante piccole cose:
luogo di aggregazione per contadini, bar, tè-house, dimora per un giovane orfano e il suo cavallo bianco, pollaio, vespasiano, guardiola, garage, alcova, spazio liturgico, angolo per timidi gesti affettuosi, per i baci rubati, per approfondite sperimentazioni sessuali, prote-zione meteorologica per la malta (ed altri materiali edilizi), cassa armonica, bar, bisca, ca-sa per giochi infantili, casa di Zorro, luogo notturno di malaffari, di sofferte dichiarazioni poetiche, di sussurri amorosi, toilette per cani e gatti, nido per rondini, spazio per segrete relazioni masturbatorie, pieve …
Era ed è un posto incredibile.
Una "metafora" credo si possa dire.
Quella notte persi il sonno
(non sembri esagerato lo perdo facilmente),
quello che non riuscivo neanche ad immaginare era il Suo processo di trasfigurazione, la Sua moltitudine in mutamento
Avevo davanti, però, anche una oscena metamorfosi: come poteva essere diventata "quel-la Cosa"? In quanto tempo? Perché?
La casualità spiegava probabilmente una parte del suo processo di cambiamento, il resto sembrava appartenere alla magia, alla teologia, all'antropologia. A limite all'arte.
Alessandra mi lasciò a casa molto tardi, poco dopo iniziai un sogno in cui non facevo che aprire portoni di legno marcio. Ero sopraffatto da un odore di muffe e licheni. Decine di passeri nel festeggiare il crepuscolo, mi sollevarono da quel torpore. Fu allora che, nel so-gno-veglia, ebbi una visione modesta ma netta: vidi il Cafauso come destino delle armo-niose passeggiate di un gruppo di donne ben vestite.
In tutte vestivano in lino chiaro, parlottavano nei meriggi assolati di fine secolo. Un'indo-lente escursione all’ombra dei cipressi, tutte loro circuivano l’attesa chiacchierando verso un caffè fatalmente servito con molta dovizia di particolari.
Nei giorni che seguirono tornai molte volte allu cafausu. La realtà che continuavo ad os-servare strideva con la visione immaginata durante quell’alba: non era che un quartiere in corso, nella periferia qualunque di un paese del suditalia, una piazza che girava (e gira) vorticosamente in cerchio; case e palazzine in costruzione, gru e macine, pietre leccesi e piastrelle da bagno, una pianta di fichi (memoria di un parco o della campagna), una deci-na di alberi di pepe rosa, lamiere, polvere, gesso, muretti di cemento, sassi, un deposito temporaneo per furgoni, una rosa di auto nuove per lo più familiari, gente che passa e si affaccenda con pacchi e fagotti. Bambini che seguono ed inseguono. Citofoni che in un stridente crepitio urlano ordini indecifrabili e sussurrano segreti e languori, in un dialogo solo in apparenza inverosimile.
Il Coffe-House vespasiano per gli operai del cantiere:
"vanno dentro a pisciare, altro che caffé!"
È Mariangela a dirlo, è lei la bambina che forse più di tutti ama quel posto.
All'inizio imbratta l'interno scrivendo i numeri di telefono dei suoi compagni di gioco, sono numeri inventati con accanto ammiccamenti erotici.
Chiama 0832-657898… Irene è una porka.
La sua casa è una di quelle che "guarda" il Cafausu dall’alto. Un giorno mentre nnu me-sciu* urinava sui muri del suo protetto, chiese a Mario di lanciare nnu tronettu a mmienzu le anche te ddrhu cugghiune**. Funzionò,
dopo un inseguimento nei giorni che seguirono lli mesci non urinarono più nel cafausu.
Molti abitanti, in questi anni hanno protetto inspiegabilmente questa piccola architettura senza valore, friabile e sottile come una terra cotta.
L'edificio appare inutile, la villa a cui apparteneva è svanito nei meandri delle logiche com-plesse e caotiche della speculazione edilizia. Siamo nella prossima periferia del paese e con il nome "la villa" si può solo osservare una serie di palazzine a schiera realizzate dalla fine degli anni settanta, a circa un km dal cafausu.
Con il nome "Uccio della Villa“ è identificato il signore (morto da tempo) che lottizzò alcuni decenni fa quel territorio. Lo aveva guadagnato per coltivarlo, erano quelli gli anni delle lotte contadine dell'Arneo, anni di lunghe sofferenze e occupazioni che si conclusero con una serie di concessioni da parte del governo.
Il terreno della villa fu quindi sottratto alle proprietà di una famiglia inutilmente nobile.
Maria Concetta ha 65 anni ed è sarta, lei dice che l’ultima passeggiata per un caffè nella villa fu fatta secondo lei fra gli anni sessanta e settanta, da una dozzina di donne tutte fra i 16 ed i 30 anni.
Mi mostra una foto, molte hanno volti mediorentali, tutte sono piuttosto alte, magre, con la pelle chiara; olivastra un paio.
Addosso vestitini corti, anni ’60, di cotone a fiori e colori tenui (ma la foto è in bianco e nero).
Quasi tutte appaiono scalze con le gambe nude.
Concetta me ne indica prima una,
Dice: “Quista era amica mia..”. Valentina Scorrano da Presicce, è la piu’ in carne, con un paio di occhiali da professoressa e grossolane treccine.
Poi un’altra
È la tredicesima, è nelle retrovie, appartata e triste, appare molto giovane, con uno sguar-do alieno e sofferente, lotta con il vento che le solleva la gonna, è alta magra con un ciuf-fo di capelli che le copre un occhio.
“Sta zoccula pare ca nnu tene nienzi sutta no?”
“questa zoccola sembra che non abbia nulla sotto (la gonna) no?”
Maria Concetta ne pare convinta e ridacchia con una certa volgarità, mostrando i suoi den-ti d’oro.
Lei come una delle donne nella foto è una chiangimuerti (una che piange i morti a paga-mento durante i funerali). Pare che si sia arricchita non poco con una condotta collaterale al produzione di lacrime: il pulir cadaveri. Si sa, a volte gioielli ed ori, nel trambusto emoti-vo di un lutto svaniscono, soprattutto se sei morto da solo e non ti rimangono poi tanti pa-renti in vita. Ora quindi non ti rimane che osservare una donna china sul tuo corpo, intinge la sua spugna nell’aceto, la bagna poi con l’acqua frizzante. (E’ che non sei riuscito nean-che a pagare l‘ultima bolletta, l’Acquedotto Pugliese ti ha cordialmente ricambiato con una ligia azione di riscossione).
Mentre sei nudo la vedi, per un attimo si interrompe, lascia la sua spugna sul tuo ventre, guarda oltre la soglia ed in silenzio chiude la stanza a chiave.
Dopo due mesi, Fabrizio mi raccontò invece una storia d’amore. Lo fece fumando una pi-pa, era il suo compleanno, faceva 79 anni. Al cafausu ci andava a giocare a carte dalla piazza con i suoi amici per tutti gli anni ’80. I tavolini e le sedie erano di plastica, e le carte a volte volavano via.
La figlia di uno dei nobili (?) militari inglesi che abitavano la villa, si innamorò di un ragaz-zo (pare fosse un soldatino), scuro di pelle e capelli, italiano, figlio di povera gente. L’unico modo per parlarci era raggiungerlo oltre il cafausu. Stagliandosi all’orizzonte, delimitava la fine della proprietà. La ragazza fu per due anni protetta da cugine e parenti, rubò parole e promesse in quel posto, annusando profumi di fiori e odori di pelle al sole.
I genitori della ragazza erano a San Cesario per aiutare militari e gendarmi italici a com-battere i Briganti, ma nessuno avrebbe potuto assicurare la famiglia che quel ragazzo scu-ro di pelle non avesse avuto alcun rapporto proprio con la temutissima banda di fuorileg-ge.
Vincenzo racconta che la giovane donna morì pochi anni dopo, prima però ottenne la pro-messa che quel coffe-house non sarebbe mai andato distrutto. Lo fece senza svelare nulla, mantenendo un segreto fino alla fine. Tale promessa fu poi ereditata da Uccio e successi-vamente (come una liturgia) anche dagli acquirenti che seguirono. Tutto senza clamori, e in molti casi senza neanche una minima richiesta di spiegazioni.
Queste storie però sono al massimo probabile, più facilmente completamente inattendibili, sono solo alcuni dei tanti racconti di chi girano intorno al cafausu.
Come quello che lo racconta “dono d’un principe turco”.
E' stato malamente restaurato dalla gente che lo osserva dall'alto, che lo abita o forse da Uccio della Villa, per un patto d'onore che fu allargato alle istituzioni o la comunità. E' sta-to anche sostenuto e soccorso come un animale in estinzione, (Marco e Giuseppe, mecca-nici, lo chiamano "il Panda") e persino per mezzo di una raccolta di firme poste all'atten-zione del sindaco.
"Avevamo paura che si sbriciolasse"
dice un ragazzo prima di ridere, probabilmente dicendo il sentito dire.
Il Cafausu aveva 5 aperture (o forse no) e una struttura ad esagono (il vento salentino deve aver fatto i propri porci comodi per decenni), ora ha solo un'entrata (quella frontale), le altre sono murate; un paio di queste persino protette con ansia, da una barra in cemen-to.
Il cafausu è un mistero, o meglio è una auto-configurazione ai margini del caos.
Paula e Morgana hanno una storia da raccontare, una storia dolorosa e lontana. Una storia d’amore e morte, una storia di abbandoni non voluti, la storia di una malattia senza scam-po. La storia è in una lettera resuscitata, una lettera protetta e sussurrata per decenni. Morgana l’aveva fra le ginocchia una sera, era reliquia sotto il Cafausu. L’accarezzava co-me si fa con un bimbo. Morgana e Paula hanno silenzi e amore da vendere, è il dono di quella ragazza lontana che è forse una santa, eredità mal celata, sangue del loro sangue, di una persona che chiedeva un abito bianco e scriveva parole soffici mentre la morte la spingeva su un fianco. Parole così sottili che ad ascoltarle non puoi non vedere la tua pelle mutare.
Era il 25 luglio, come spesso accadeva, ero a piedi, (è difficile trovarlo, prima di arrivarci mi perdo sempre un po'). Avevo appena organizzato la mia terza passeggiata al cafauso, ma quel giorno ascoltavo il borbottio del caffé. Da lontano Lui appariva al centro come in una scena teatrale.
La luce per tutto il pomeriggio non gli è quasi mai favorevole; le ombre lunghe dei palazzi e degli alberi l'oscurano, ma alle 13 il sole inonda quelle ridicole ossa di cava, e dopo il tramonto nonostante la triste luminosità dei lampioni, appare fiero come una donna in maschera a Carnevale.
Lo puoi vedere in molti modi, in piena solitudine (la notte) o di giorno, sempre più confuso da altro: auto, moto, cumuli di terra, sabbia, calce, gente che urla e passa continuamente, in un trambusto che in ogni caso resta ineluttabilmente soffice.
Quel pomeriggio faceva caldo ed un enorme caffé stava per uscire, il gorgoglio veniva fuo-ri nettamente dalla Sua naturale cassa acustica, una voce simile a quella della moka di ca-sa. Da lontano mi accorsi solo dopo un po' che dentro c'era una lambretta color crema, precisamente al centro (come in un piccolo e vezzoso garage).
Il borbottio si esaurì quando la motocicletta con un botto si spense.
"Bisogna accenderle ogni tanto"
disse il tipo, e poi mi chiese se volessi comprarla.
La gente del quartiere (quella che ogni mattina dall'alto si affaccia sul cafausu) è disposta a raccogliere del denaro per una festa. E' una mia idea, ma a loro è piaciuta moltissimo, progetterò con loro le luminarie, tutte partiranno dal cafausu per arrivare sui tetti dei pa-lazzi intorno, o forse è meglio che partano dai palazzi per giungere fino al cafauso.
"Bisogna fare qualche cosa", hanno detto.
Ho dormito l'altro giorno in una di queste case (lo farò ancora).
La mattina dopo, Giovanna e suo marito Sandro mi hanno fatto il caffé, poi sono uscito sul balcone, sorseggiando anzi "rufando" come si dice qui. Il liquido era davvero bollente, se il cafausu fosse uno strumento dovrebbe "rufare", ho pensato e potrebbe essere soffiato da un balcone in alto, come un sax, o meglio come uno strumento a s-fiato.
E' da un po' che ne parlo e ne penso.
Il cafauso è un chiodo fisso,
la mia linea politica, la mia etica, la mia giustizia.
E' com'essere innamorati, come odiare.
Con gli abitanti che vivono intorno al cafausu vogliamo realizzare una festa, quasi un gior-no della memoria (o della smemoratezza). La festa del cafausu (e per Aldo Calò). Non sappiamo ancora quando, ma tutto potrebbe essere realizzato con i soldi degli abitanti del quartiere. Il sindaco ha detto che alla fine qualcosa riuscirà a trovarla anche lui, ma nes-suno qui si fida granchè. Faremo una colletta. Abbiamo trovato una banda e un sacco di musicisti disponibili a suonare per tutta una notte. Altri a suonare per ore dentro la piccola costruzione. Proverò a chiederlo ai Kronos Quartet;
Mi piacerebbe rivedere l’ultimo caffè preso da quelle giovani e bellissime donne a cavallo fra gli anni sessanta e settanta. Sembrava un caffè rubato, una performance, una rappre-sentazione, ma la villa era ancora lì. Ora il caffè e la passeggiata sarebbe fra le auto par-cheggiate e i palazzi appena costruiti;
Non tutti gli abitanti del quartiere sarebbero disposti ad evitare di parcheggiare intorno al-la costruzione per quel giorno, ma uno sforzo lo faranno. Un gruppo di ragazzi mi ha chie-sto di partecipare con delle bancarelle. Uno di loro ha un panificio, ho pensato di realizzare un pane a forma di cafauso (un pane al grano duro, orzo e chicchi di caffè);
Il cafausu al centro di una lenta scena "molto cinematografica da Lui escono le note di canzoni anni sessanta e s'intravede un tavolino con su appoggiato un mangia-dischi (in vi-nile ovviamente). Si ascolta "parole, parole, parole" di Mina e Alberto Lupo, poi "amara terra mia" di Domenico Modugno, poi magari anche altro, per la gente che vive intorno. Forse però mi piacerebbe che queste nostalgie fossero diffuse ed interpretate dalla voce di Matilde e i suoi StudioDavoli.
Un decennio fa, attorno al cafauso, c'era la campagna, ed appoggiato ad un Suo lato, una tettoia. Lì un ragazzo e un cavallo bianco, hanno vissuto per anni, alcuni dicono che fosse-ro innamorati. Ora il ragazzo vive probabilmente a Bologna. Alcuni dicono che anche quell cavallo è vivo. Mi piacerebbe portarlo a fare una passeggiata. Mi piacerebbe chiacchierare con il suo padrone;