Demetrio e Polibio

Demetrio e Polibio

L’Accademia di Belle Arti di Urbino e il Rossini Opera Festival hanno avviato un rapporto di collaborazione volto alla formazione degli studenti della scuola di scenografia, al fine di realizzare un percorso didattico volto alla conoscenza da parte degli allievi del mondo del teatro e delle opere liriche. Gli studenti del biennio specialistico e del terzo anno della sezione hanno curato la progettazione delle scene e dei costumi, con relativa parziale realizzazione, dell’opera “Demetrio e Polibio” di G. Rossini prevista nel programma del Rossini Opera Festival 2010. Il lungo e travagliato progetto per il “Demetrio e Polibio” si è protratto per buona parte dell’anno scolastico. La lettura e lo studio dell’opera ci hanno portati a molteplici e sempre differenti soluzioni per uno spazio scenico. Solo dopo accurata e ponderata revisione di tutte le idee abbiamo sintetizzato alcune proposte da sottoporre al regista D. Livermore. La proposta drammaturgica finale scelta dal regista è stata quella incentrata sulla rievocazione di fantasmi, di personaggi rivelati medianicamente a luce di candela. Questi spiriti non sono altro che la stessa famiglia Mombelli, committenti e primi attori dell’opera. In un palcoscenico che si va svuotando, appaiono e scompaiono dalla polvere i personaggi del Demetrio e Polibio. Questi spiriti vivono nel teatro e alla fine degli spettacoli, come chiusi in un mondo magico fuori dal tempo, rivivono le vicende del re Polibio e di sua figlia Lisinga, del suo giovane amante Siveno e di suo padre Demetrio/Eumene. Liberi da catene mortali, gli spettri giocano a reinterpretare la vicenda scritta da V. Viganò Mombelli, madre delle due sorelle per cui erano state pensate le parti dei due giovani innamorati. Le anime, evaporate dall’urgenza del contrasto, riveleranno qualcosa di sé nel semplice atto di sparire e di comparire magicamente, accendendo una fiamma del loro essere attraverso le note del Rossini bambino. Non vi è quindi la necessità di progettare una vera e propria scenografia, bensì piuttosto l’esigenza di restituire al palcoscenico un vuoto fatto di corde, di botole, mantegni e delle luci americane. In questo spazio emergono cantinelle, tiri contrappesati, costumi e bauli abbandonati, richiamando poetiche pirandelliane o l’idea di che A. Petrangeli si serve nel suo Fantasmi a Roma (1961). Saranno le macchine del teatro, le scale e l’apertura e chiusura dei sipari a movimentare l’azione. Oggetti che dal silenzio si appropriano di una loro personale, piccola trama, come i proiettori abbandonati che improvvisano intermittenze luminose fuori partitura. Fiaccole e candelabri fluttuano leggiadri nell’aria e magici specchi rivelano gli incubi e i pensieri dei fantasmi i quali vi vedono riflessi i loro sentimenti, paure, speranze. L’idea è quella di ribaltare la visione tradizionale del teatro affinché gli spettatori vedano lo spettacolo come se fossero seduti nel retropalco. Un grande sipario rosso con apertura all’imperiale chiude il fondo della scena. File di lunghe aste in ferro a cui sono appesi consunti vestiti di scena, scendono dalla graticcia quasi a formare un sipario. Tutti i celetti e le quinte sono ribaltati, smascherando i telai in legno e i segni del tempo. Ogni cosa è volutamente girata, rivelando agli spettatori tutto ciò che in un allestimento ‘normale’ non vedrebbero. Essi devono avere la sensazione che oltre a quel sipario rosso ci sia effettivamente un’altra platea gemella con un pubblico altrettanto reale che sa ridere ed applaudire. Occorre dire che lo spettacolo doveva coabitare con un’altra produzione del festival, “Sigismondo” e i problemi di spazio e smontaggio sono stati fra le difficoltà principali che la sezione ha dovuto affrontare. Il palco utilizzabile è un rettangolo di 15 metri di larghezza e 10 metri di profondità (dal sipario). Quando non si può vincere un ostacolo, lo si aggira o meglio ancora lo si sfrutta. Nell’opera è stata utilizzata parte della scenografia del Sigismondo o meglio, del retro delle scene, le quali accatastate ai lati del palco come se fossero state immagazzinate in fretta, coprono sfori e uscite di tecnici e attori. Queste imponenti pareti nere chiudono la scena circoscrivendovi l’azione, senza però infastidire la visione dello spettatore. Seguendo questa traccia registica i costumi cercano quindi di ricalcare un Ottocento volutamente oleografico, senza gli eccessi del melodramma, appena un po’ impolverato: semplicemente, gli stessi abiti che avrebbe potuto indossare una famiglia borghese del tempo, come quella dei Mombelli. L’attrezzeria segue la medesima direttiva (spade, vecchie torce, antichi candelabri e così via). La parte più interessante rimane la scena del rapimento alla fine del primo atto, dove i soldati di Demetrio appiccano il fuoco al palazzo di Polibio. Nel nostro caso sono gli stessi fantasmi che provocano l’incendio del teatro a cui segue il crollo del sipario e di un proiettore. Nel secondo atto il pubblico si trova di fronte allo stesso teatro dopo la disgrazia dove quinte e celetti sono bruciati, e solo resti sparsi e carbonizzati dei vestiti rimangono appesi alle aste ormai spoglie. Effetti speciali e trucchi da illusionista contribuiscono a regalare ai fantasmi quella magia che li rende presenze soprannaturali ed eteree.