IL VIVAIO - E SE CI AMASSIMO QUANTO CI ODIAMO LO SAI CHE BELLO

IL VIVAIO - E SE CI AMASSIMO QUANTO CI ODIAMO LO SAI CHE BELLO

 

IL VIVAIO

— e se ci amassimo quanto

ci odiamo lo sai che bello  —

 

Un progetto artistico di ROSVITA PAUPER / Martina Badiluzzi, Giorgia Buttarazzi

 

 

 

_Finalista premio Short LAB - Cometa OFF - Roma

_Vincitore della residenza artistica Through Landscape con il patrocinio dalla regione Friuli Venezia Giulia

_Con il sostegno di Carrozzerie n.o.t. - Roma

 

 

drammaturgia_  Martina Badiluzzi, Giorgia Buttarazzi

regia_  Martina Badiluzzi

aiuto regia_ Elisa Menchicchi

con_  Martina Badiluzzi, Alberto Baraghini, 

Samuele Chiovoloni, Ludovico Röhl

ambiente sonoro live_  Samuele Cestola

disegno luci_ Francesco Tasselli

illustrazioni_ Maria Martini

ufficio stampa_ Marta Scandorza

 

Che oggi il giardino lo si venda o no, cambia qualcosa? Per voi tutto questo è superato. Tornare indietro è impossibile: l’erba ha cancellato la strada. Si calmi, signora cara. Non bisogna farsi sempre illusioni. Bisogna, almeno una volta nella vita, guardare in faccia la verità. 

 

Il giardino dei ciliegi - Anton Checov

Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

 

La luna e i falò - Cesare Pavese

 

 _Scrivere il proprio passato cercando di ricostruirlo con la memoria delle cose. Riattraversare l’infanzia in maniera analogica scoprendo che c’è stato un tempo che lasciava traccia. Diari, fotografie, registratori o musicassette con incise le nostre voci che introducono la canzone che amavamo da adolescenti. L’anello di famiglia che dovrò regalare alla mia fidanzata. La riflessione di una generazione che sa cosa vuol dire lasciare traccia ma che al contempo non ne lascerà alcuna. Non una cartolina né una lettera d’amore. Scavando tra le macerie della casa delle cose di famiglia è scritta una storia sconosciuta, un enigma indispensabile da risolvere per trovare una qualche identità. Una generazione stordita che non ha un nemico con cui prendersela, nemmeno i padri o le madri bastano più per scrivere un dramma veramente contemporaneo. Fratelli di sangue e non, tutti senza fede. Ci sono solo una casa di famiglia, la morte di un parente stretto e un terreno, un’attività dimenticata di cui non si è tramandato il mestiere e tre fratelli, forzati dalla burocrazia a condividere una giornata. L'unica traccia del passato, si incarna in un amico d’infanzia, lo spettro delle loro scelte. All’imbrunire, tre fratelli, decidono di fare il funerale alle loro identità sghembe e di seppellirle nel giardino della casa di famiglia. La ricerca riguarda l’attesa di tre esseri umani che aspettano di scoprire che pianta nascerà sulla propria tomba, un’identità floreale.

 

Perché il vivaio / la terra / i fiori_

Il vivaio come emblema delle nostre radici alla Terra nell’epoca della globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni virtuali delle relazioni umane, rappresenta un paradigma della modernità urbana post-industriale. Il rimando alle radici familiari è quanto mai diretto, ma non c’è solo questo, il fiore è essenza, è la parte migliore della pianta, è quel che mostra di essere, superficie ed essenza allo stesso istante. Il fiore è promessa del futuro, così come Flora era la dea dei fiori prima e dei raccolti poi. I fiori accompagnano l’intera storia umana, danno vita ad un linguaggio simbolico, silenzioso ma conosciuto. La coltivazione dei fiori è legata quanto poche altre attività umane al grado di civiltà raggiunto da una società, perché legata meramente all’estetica: i fiori non sfamano, non hanno utilità, hanno la bellezza. 

 

 

Questa storia comincia con una perdita e racconta di superstiti, dei vivi. Il modo in cui si affronta il lutto cambia da persona a persona anche se, al giorno d’oggi, la morte è un tabù, non si deve affrontarla mostrando sentimenti, debolezze, genera imbarazzo, perdita di tempo; non c’è il tempo di portare il lutto, indossare abiti neri, si deve correre e ricominciare, la burocrazia chiede che lo si faccia il prima possibile e richiede che si vada a ficcanasare nelle cose di chi ci è stato tanto caro. Impicciarci nei fatti suoi, nella quotidianità e intimità. Anche la casa deve essere passata al vaglio, si deve frugare nei cassetti, negli armadi, tra le cose personali, ricordi di vita, e si dovrà decidere cosa fare di tutte quelle cose. 

 

MARTINA_  I ninnoli, i soprammobili, tutti quegli oggetti grandi quanto due falangi che invadono le case dei genitori. Dove vanno a finire i ninnoli, i cani e cagnolini d’argento, il porta frutta, il centrino regalato e fatto da qualcuno a mano, le bomboniere i candelabri, le cornici, gli elefantini di giada, la collezione di tartarughe di cristallo Swarovskjy le conchiglie col segno zodiacale, le cose che non servono a niente, le cose che non si possono toccare, che se poi le rompi? Regalare, vendere, tenere, buttare via, svuotare è un verbo transitivo. Come ricevere ciò che per mamma era non toccare, come accogliere ciò che prima mi era stato rifiutato, eccola qua la rivincita d’aver messo finalmente le mani sulla collana d’oro della zia Tullia. Posso buttare la lampada in vetro di murano scheggiata dalla freccia degli indiani? Sarò erede, destinataria o usurpatrice? Le cose sono già mie o ancora loro.

 

IL VIVAIO - e se ci amassimo quanto ci odiamo / Scena III

 

 

 

_Il grottesco del reale

 

A_ Una camicia bianca, elegante

M_ Io non glielo metto il vestito blu

L_ Lo spezzato

A_ Sì certo, dove dobbiamo portarlo? In balera?

M_ Perché vuoi vestirlo come piaceva a mamma?

L_ Mamma non sarebbe d’accordo

A_ Ah, ma si può?

L_ La radiosveglia di papà

A_ La settimana enigmistica

M_ Un pacchetto di ms mild

A_ Gli piacevano i carciofi, che fai gli metti un mazzo di carciofi nella bara?

L_ I cerotti alla nicotina

M_ Diceva sto sempre in mezzo alle piante, ri-ossigeno i polmoni

L_ Compenso

A_ Niente oro, quelli si rubano anche le otturazioni

M_ I crisantemi no, un’orchidea, solo un’orchidea

A_ Di tutto mi sarei aspettato tranne di dovermi occupare di fiori, in questa circostanza

L_ È successo

M_ Pronto, zia, ciao sì, mettiti seduta

A_ Ti devo dire una cosa

L_ Un fulmine a ciel sereno

A_ Così all’improvviso

L_ Un colpo

M_ D’infarto

L_ Bisogna dare i croccanti al cane

M_ Bisogna dare l’acqua alle piante

A_ Aalle piante ci pensa Samuele

L_ Almeno stava nel suo letto

A_ Sono corso e chè devi fare

L_ Stiamo sempre a correre

M_ Siamo tornati, per forza

A_ La zia Fernanda quando piange sembra che canta

L_ Duemila euro per la cerimonia

M_ Duemila euro per il notaio

A_ Tombola

M_ Un amico di papà mi ha detto di andare a prelevare prima che blocchino il suo conto

L_ Si fa quel che si può

A_ Io quella non la sopporto, non la voglio vedere

M_ Spero abbia la decenza di non presentarsi

L_ Domani

M_ Ho pianto ieri, oggi va un po’ meglio

A_ Alle undici e trenta

L_ Alla chiesa di San Cristoforo

A_ Don Gastone

M_ Lo chiudono domani

A_ È già importante che tu abbia chiamato

L_ No e che vuoi fare

M_ A domani

A_ Ci vediamo domani

A, L, M_ Grazie, grazie, grazie, grazie, grazie, grazie, grazie, grazie, grazie, grazie.

 

IL VIVAIO - e se ci amassimo quanto ci odiamo / Scena I

 

 

La partitura musicale originale e suonata live da Samuele Cestola aka Samovar insieme alla drammaturgia e alle partiture fisiche dei perfomer è il catalizzatore che permette di creare un’insieme ordinato di parole-suoni come strumento di descrizione della realtà evidenziando l’inadeguatezza del linguaggio. L’intento di creare una perforazione del linguaggio, un ponte in grado di descrivere ma soprattuto di cogliere ed esprimere l’esperienza umana, si trasforma qui nel dialogo sommesso che i tre fratelli sussurrano mentre seguono in processione il carro funebre che porterà la bara del padre dalla chiesa al cimitero. La parola è ridotta all’essenziale, l’ambiente musicale crea la cornice, in quest’ottica non è necessario l’utilizzo di oggetti o di scenografie, lo spazio si svuota delle cose. 

 

Le immagini appena evocate, sono solo accennate perché lo spazio è vuoto, non vi sono descrizioni ma semplici dialoghi quotidiani. Nella banalità dell’ordinario, l’opportunità di immergersi nelle situazioni grottesche in cui i personaggi vivono. Il lutto, la perdita di identità, la ricerca delle radici si tinge di sfumature grottesche, quasi ridicole che non appartengo alla realtà di per sé ma nascono dalla messa in scena tragicomica delle pantomime e dei rituali che appartengono al lutto. 

 

L’idea di partenza è quella di raccontare la famiglia puntando lo sguardo sui fratelli, spostando l’asse dei rapporti da verticale, della discendenza o successione, a quello orizzontale. In una scrittura che pur nella finzione non può che essere personale, prossima. Il VIVAIO, come il giardino di Checov, è simbolo di tutto ciò che c’è di caro al mondo, di quel che è radicato in noi, del posto da cui veniamo e che prima o poi, strappati dal caso o dalla violenza oppure di nostra volontà dobbiamo abbandonare. 

 

M_ Non dovevamo venire qui oggi.

L_ E dove dovevamo andare? Ci siamo. Mi sembra che abbiamo detto tutto quello che era essenziale dirci. Di cosa volete che parliamo fratelli? Parliamo di politica? È un dialogo che non abbiamo avuto. Vuoi che parliamo di una partita di Champions? È un dialogo che non abbiamo avuto. Vuoi che parliamo dei tuoi programmi tv? La tua macchina? È un dialogo che non abbiamo avuto. Di dove andrai in vacanza quest’estate? Della tua vita sulla costa. Del tuo impianto stereo? E’ un dialogo che non abbiamo avuto. Di tutte le cose che mettono in ordine la tua vita? E’ un dialogo che non abbiamo avuto. Che rumore vuoi che mettiamo sul vuoto? Parliamo della morte, parliamo della vecchiaia, parliamo della malattia. Diciamo la parola cancro o preferite tumore? Preferite il diabete di mamma? La vogliamo dire la parola depressione? Suicidio? Diciamo depressione e accanto infiliamoci genetica. 

A_ Io sono ipocondriaco, Ludovico.

L_ Tengo tutti i dialoghi che potremmo aver avuto dentro e tutti quei dialoghi si trasformano in cancro perché di niente si può parlare, allora dimmi quanto guadagni così saprò chi sei diventato.

A_ Stai facendo problemi, io lo sapevo che avresti fatto problemi.

L_  Se non vuoi parlare della morte, di cosa vuoi che parliamo? 

 

 

Dopo il lutto, una cena, l’ultima cena il cui protagonista inaspettato sarà l’amico d’infanzia, rimasto nel piccolo paese di provincia a far fortuna. I tre fratelli, inadeguati alla burocrazia e alla gestione delle cose, tornati dalle metropoli europee dove vivono, vedranno affiorare sempre di più la consapevolezza che dovranno allontanarsi dalla loro casa, dal vivaio di famiglia, senza quel luogo non sapranno più interpretare la vita, lì sono vissuti i loro genitori, lì sono cresciuti, lì sono tornati. La proprietà sarà acquista dall’amico d’infanzia. La cena si concluderà con un ballo, una canzone, l’ebrezza, la danza sulle ossa degli avi e su un terreno che verrà destinato alla costruzione di un centro commerciale o di un complesso di villette bifamiliari.

 

 

 

ROSVITA PAUPER

rosvitapauper@gmail.com

 

Referente

MARTINA BADILUZZI

martinabadiluzzi@gmail.com

tel: 3477527011

 

nata a Udine il 01/11/1988 

residente in Via d’Artegna 79/2 - 33100 (UD) 

domicilio in Via Pietro Ruga 60 - 00176 (RM) 

c.f.: BDLMTN88S41L483U 

matricola ENPALS: 2624580

 

 

 

 

_pagina fb al VIVAIO

https://www.facebook.com/ILVIVAIO/?fref=ts&locale=it_IT%2F 

 

 

_link composizioni musicali di Samuele Cestola aka SAMOVAR:

https://soundcloud.com/amovar/sets/samovar-roma-decadence

https://soundcloud.com/amovar/andiamo-al-mare-a-riprodurci

 

https://soundcloud.com/amovar/samovar-fak-fek-fik-theatrical-soundtrack