Che ora è?

Che ora è?

Sono nata all’Aquila perché l’ospedale era il più vicino.

Là sono nati anche i miei fratelli, loro però, avevano vissuto a Camarda nel periodo di anni che mio padre lavorava al traforo di San Rocco e quello del Gran Sasso.

Di quel periodo ho solo i racconti successivi, una medaglia per mio padre e la sua silicosi oggi.

Negli occhi l’ultima gita fatta nell’estate del 2008, per rivedere quella casa dove loro erano cresciuti;

la frenesia di mia madre, che allora trentenne, oggi cercava ancora i volti e le voci, con il dispiacere di vedere una casa abbandonata che forse ora non esiste più.

Sono cresciuta in quel fazzoletto di terra che dalla provincia dell’Aquila fu annesso per volere fascista a quella di Rieti,

Colleviati questo il mio paese, il colle dei viandanti.

In quel nome come un destino segnato, i passi delle persone si sono avvicendati, di passaggio Santi, eremiti, invasori, briganti,

gente.

Il mio bisnonno veniva da Lucoli e di passaggio decise di fermarsi.

Oggi sono paesi spopolati, si va via prima per studio e poi per lavoro; vivono l’abbandono di quelli come me, che solo con il tempo, ora misurano la distanza, trovando nell’orgogliosa e testarda memoria le radici sempre lì radicate.

Li ricordo i terremoti eccome;

da allora mi hanno inseguito come un serpente nell’Italia centrale.

Quello dell’ottanta è il più antico, avevo quattro anni.

Dormivo nel letto con mia madre con quaranta di febbre e le allucinazioni, ho nelle orecchie il ticchettio del cuore accelerato e quello dell’orologio che rimbomba nella stanza con un’eco distorta.

Poi le grida dei miei fratelli e lo scatto fulmineo di mia madre che accollandomi con una coperta, scendevano le scale fino alla strada.

Guardavo la gente dal lunotto della macchina, perché quella fu per molte notti il nostro letto.

I giorni sono noiosi, lenti.

Gli altri giocavano in strada, mentre io ero come un vecchio cui togli le abitudini.

Ti giri e rigiri, cercando uno svago per allontanare la paura che ancora insistente ti batte nella testa, guardi l’orologio o chiedi ogni dieci minuti… che ora è?

Come un capostazione che deve essere attento per il passaggio del prossimo treno.

Tic tac, tic tac…

Vorresti inchiodarlo al muro quel suono.

Vorresti rimanesse bloccato dalla colla su un pezzo di legno come si fa con i topi.

Vorresti tornasse indietro quella maledetta lancetta e sapere quello che deve accadere, perché loro giovani Cristi, inchiodati non dovevano essere.  

Vorresti non sentirlo mai più quel rumore né quelle voci che come prima cosa raccontano…

Erano le tre e trentadue minuti del mattino.

 

 

 

 

                                                                                  Meri Tancredi