Gabriele Licchelli

Danza
Altro

Gabriele Licchelli

Destinazione

Marrakech - Morocco

Periodo
-
Tornato
Il progetto (e info su ente)

IL PROGETTO

Trans-frontieres| Oltre il confine. Il progetto unisce performer, video-maker e artisti visivi belgi, marocchini e italiani per un ciclo di residenze creative e restituzioni tra Marocco e Belgio. Ambito del progetto sono gli immaginari che ruotano attorno al tema del SACRO, inteso come motore irrazionale d'identità contemporanea ma anche come potenziale inter-connessione tra i linguaggi d’arte. Il progetto esplorerà, in relazione al tema, le connessioni con alcune correnti musicali marocchine, ed è sostenuto da Les Halles de Schaerbeek-Bruxelles e Fondazione Nazionale Danza-Reggio Emilia.

ENTE OSPITANTE

La Maison de l'élu è un meccanismo di cooperazione e collaborazione per sostenere le attività degli attori locali e per sostenere lo sviluppo economico locale desiderato. Si tratta di un primo esperimento del genere prima di essere generalizzato in tutte le Regioni del Marocco.

Intervista

Gabriele si occupa principalmente di video-making, mentre Teresa è una ballerina. Come vi siete avvicinati alle rispettive discipline?

Credo il nostro incontro sia avvenuto in modo molto naturale, è stato un percorso che si è definito mano a mano sui nostri interessi comuni e sulla materia di lavoro. Abbiamo cercato nel dialogo il focus della nostra ricerca. Era importante per noi capire questo. Era importante capire che idee ci avvicinavano. Quando si parte da un idea comune è più facile che ogni uno poi traduca questa idea nella sua disciplina. La ricerca è stata sviluppata insieme, dedicando dei momenti alla ricerca sull’audiovisivo e altri a quella sul movimento, o sui testi. 

Si può dire che abbiamo cercato una pratica artistica che potesse essere utile a entrambi. Abbiamo camminato. Camminato, ascoltato, intervistato, e discusso. Questi elementi sono stati i nostri punti di partenza per sviluppare un lavoro sia sulla messa in scena della performance sia sul video.

Come è nata la vostra collaborazione?

Non ci conoscevamo prima partire per il Marocco. Al centro di questo progetto c’è la Fondazione Nazionale della Danza – Aterballetto, che era al corrente dei nostri lavori individuali e ci ha invitato a sviluppare una ricerca collaborativa, a cui partecipano anche altri artisti internazionali, dal Belgio, dalla Francia e dal Marocco. Cosa sapevamo uno dell’altro? Ancora nulla, se non che venivamo da due discipline diverse e che avremmo lavorato insieme nelle settimane di residenza a Marrakech e a Bruxelles.  

La residenza verterà attorno al tema del sacro. Cos’è il sacro secondo voi?

Sì, la residenza, per tutti noi artisti, ha come tema centrale il “sacro”. Sin dall’inizio sapevamo che avremmo sviluppato il lavoro di ricerca in Marocco, in una cultura che non ci appartiene, che avremmo guardato dall’esterno, e in cui il sacro gioca un ruolo molto presente e attivo a livello sociale. In modo intuitivo, influenzato da un approccio tacito ed esperienziale, che rispecchia il nostro processo di lavoro, ci siamo interessati al concetto di “trasmissione”, di passaggio e scambio. Siamo rimasti affascinati da quanto fosse “immateriale” della conoscenza,  e quanto fosse difficile imparare “ alla europea” qualcosa di nuovo. Poche cose sono scritte, registrate o insegnate a scuola. La musica, la danza, le storie, l’“ halka”, il ritmo, la cucina, la spiritualità, la cura del corpo, sono tutte cose che si trasmettono di generazione in generazione, guardando, imitando, ricreando. Questo aspetto nella cultura Marocchina ci ha molto ispirato. C’è un eredità, un patrimonio immateriale e orale che bisogna essere curare, tenere vivo, perché è sacro. 

Resoconto

Come è stato lavorare con persone di diverse nazionalità e culture?

Nel nostro lavoro siamo abituati a lavorare con persone e artisti di altre culture, non è stata una novità per noi. L’aspetto interessante e nuovo in questo progetto nello specifico è stato prendere coscienza del fatto che noi eravamo “stranieri”, quelli fuori luogo a cui mancavano i codici di condotta sociale. Abbiamo avuto bisogno di parlare e comunicare con persone marocchine sulla nostra ricerca sulla tradizione della musica Gnawa e succedeva che a volte mancavano i giusti modi di approccio, rapporti di fiducia, il ritmo. Durante il periodo di residenza abbiamo cercato di riunire materiale di ricerca lavorando con artisti di diverse generazioni. È stato molto interessante, sopratutto con i musicisti e danzatori, capire che secondo alcuni per essere un artista bisogna andare per strada. S’impara li, nella piazza Jemaa el-Fnaa. Per altri, invece, più conservatori, la saggezza della musica si trasmette in casa, di padre a figlio e ogni famiglia ha una sua variazione della tradizione. Poi siamo arrivati ai giovani, che rompono gli schemi, che si avvicinano alla musica e alla danza pur non essendo discendenti di una famiglia Gnawa o essendo donne ( fino adesso solo gli uomini potevano suonare gli strumenti sacri). È molto viva nel Marocco contemporaneo l’idea tradizione, di  trasmissione, ma con piccole rotture.

Cosa è nato da questa residenza, che prodotti avete realizzato?

È nato un bellissimo legame con gli artisti belgi e marocchini che hanno partecipato insieme a noi a questa residenza. E alcuni di questi legami si sono poi approfonditi e sviluppati in collaborazioni su altri progetti. Noi due abbiamo realizzato IMMA – Immagini Mistiche del Marocco di Aisha, una produzione multidisciplinare di danza, teatro e video, che ha come tema la figura di Aisha Kandisha, una jinnya (donna-spirito) della tradizione marocchina. IMMA ha avuto tre restituzioni pubbliche, in Marocco a Palais El Bahia, a Reggio Emilia per NarraReggio e Milano in Voices&Borders.

Cosa sentite di aver imparato dal Marocco e da Marrakech?

TERESA: Abbiamo partecipato a una conferenza di presentazione del primo libro sulla danza contemporanea nel mondo arabo. Ero entusiasta di vedere e ascoltare, anche se spesso non capivo, quando si passava dal francese all’arabo. Ma ho imparato una cosa molto importante per la mia giovane vita di danzatrice. Si parlava di creare la prima scuola di danza contemporanea in Marocco. Le domande erano tante, il rapport con il corpo, le differenze di privilegi di genere, ecc. Ma quella che mi ha colpito di più è stato sentire: “Il modello scuola di danza francese non è adatto per noi” E infatti è evidente che non lo sia, il modello europeo non potrà mai essere il modello ideale per una scuola di danza in un’altra cultura. Dove l’eredità culturale è cosi piena di ritmi, suoni, movimenti e spiritualità. Sarei molto curiosa di continuare a frequentare festival di danza e circo nei paesi dei mondi arabi. Sono stata una nuova finestr per me. Marrakech è piena di cultura, tradizionale e contemporanea. Lo trovo veramente stimolante.

GABRIELE: Marrakech mi ha fatto molto riflettere sullo “sguardo”. È una città in cui non puoi far finta di essere invisibile, perché ti tocca, ti parla, ti muove dalla tua posizione neutra, ti accoglie a braccia aperte o ti frega, e in qualche modo devi essere sempre in relazione, in rapporto con l’altro. È una città che non si può inquadrare dall’alto, ma forse solo cogliere dall’interno, dalla pancia. È un posto in cui andare dritti, non esclude la possibilità di svoltare a destra o a sinistra. E questo per me è stato un insegnamento unico.

Cosa vi portate a casa da questa esperienza come professionisti?

TERESA: Come professionista, porto a casa tutto un processo di ricerca e di creazione che era tanto lontano da quello che conoscevo. Il nostro lavoro si è sviluppato camminando per strada, chiedendo interviste e osservando persone. Un processo molto insolito per me, Teresa, che sono abituata ad avere una sala prove, con più o meno spazio, abbastanza pulito. Ecco, mi ricordo ora di aver un enorme desiderio di sdraiarmi per Terra. E questo non è mai stato possibile. Tutto era polvere. Questa interdizione di avere quello a che ero abituata mi ha fatto cercare altre soluzioni, anche perché la collaborazione con Gabriele lo chiedeva. Ci siamo trovati a creare qualcosa di molto nuovo per entrambi.

GABRIELE: Per me è stata una grande sfida. Il nostro lavoro ha avuto sin dall’inizio una forte matrice documentaria, per il modo in cui ci siamo approcciati ai luoghi, al tempo e alle persone. Ma questo processo di osservazione e immersione che appartiene a me umanamente e professionalmente si è poi concretizzato in qualcosa che sconfina il mio campo. Tradurre e tradire tutto il materiale che ci è stato trasmesso utilizzando la danza e il teatro, linguaggi che non mi appartengono direttamente, è stato per me un’esperienza nuova e piena, che mi ha portato in qualche modo “oltre”, alla ricerca di buone risposte alle tante domande che fanno parte di ogni processo creativo.