45.414348, 11.710521

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La terra: è lì, di fronte a te che guardi, sospesa a due metri dal suolo.

 

Ti parla. Ti affronta. Si è fatta opera d'arte.

 

Chiede di essere compresa nel tuo mondo.

 

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L'opera che presento fa parte di una serie di quadri di terra che hanno come titolo le coordinate esatte del punto in cui la terra è stata prelevata per renderla arte.

In questo caso ho scelto di prelevare la terra dal Castello di san Martino. È situato nelle terre dove sono cresciuto; al suo interno, oggi, si svolgono diverse attività culturali, a dimostrare che è un posto vivo come lo è stato in passato per la Serenissima, e prima ancora per i Carraresi. Uno degli obiettivi delle mie opere è valorizzare terreni e spazi collocandoli in luoghi extraquotidiani senza privarli della loro identità, ma anzi mettendola in luce.

Ho scelto la sua terra perché ritengo che sia tra le più ricche della mia cultura, e ho cercato il modo più potente che potessi trovare per elevarla.

Ho scelto di farne un'opera d'arte.

 

Di seguito una curatela ai quadri di terra

 

 

Tutti abbiamo una storia legata alla terra. Un giorno un mio amico vide le mie opere e ne fu colpito, tanto da confidarmi un aneddoto intimo e potente. Era un uomo di 56 anni, originario del Kosovo. Quando è stato chiamato per fare il servizio di leva (al quel tempo durava due anni) fece senza pensarci un'azione decisa e istintiva: appena prima di partire per il militare prese un sasso del vialetto di casa e lo mise in tasca. Ogni giorno lo toccava e guardava; lo rassicurava, perché era parte della sua casa. Dopo molti mesi di militare disse tra sé e sé: ma cosa sto facendo? Afferrò il sasso e lo gettò via. Passarono due secondi prima che corresse a riprenderlo; lo trovò e lo rimise in tasca. Mi disse: "Ecco, quel sasso è come questa terra appesa: è molto più di un simbolo, è un pezzo di Casa".

 

C'era un tempo in cui la terra era sotto le nostre unghie, tra i nostri capelli, finiva nel cibo che mangiavamo. I nostri piedi si macchiavano di fango, e nel fango lasciavamo le nostre impronte uniche e pulsanti; venivamo sepolti nella terra, a diretto contatto con essa, e presto tornavamo a farne parte.

Oggi, quando non usiamo dei mezzi di trasporto che ci staccano dal suolo, ci ritroviamo a camminare su strade ricoperte di asfalto o ciottoli, facendo percorsi che da secoli non vedono più il sole. Se facciamo una passeggiata nei boschi o lungo un argine, usiamo delle scarpe, dimenticandoci il fatto che sia una cosa artificiale e prettamente umana il fatto di frapporre qualcosa tra noi e il nostro pianeta. Nemmeno dopo la morte il contatto è diretto.

Da questo distacco tra noi e la terra, divenuto naturale nel tempo, è nata l'urgenza in Andrea dal Corso di portare all'estremo della propria estetica la consapevolezza di uno scarto.

Immersi in una quotidianità in cui se del fango finisce sulle scarpe queste vengono definite "sporche" di terra, non è più possibile aspettarsi una relazione archetipica con essa.

È per questo che Andrea dal Corso ha deciso di riscoprire una connessione diretta con la terra, e per farlo l'ha elevata a opera d'arte.

La materia prima è la terra stessa. Terra che inizia a diventare opera d'arte nel momento in cui l'artista la sceglie e la incornicia con quattro tavole di legno. Viene così deciso cosa sta dentro e cosa sta fuori all'opera d'arte. Su quel pezzo di mondo viene realizzato un calco in gesso, a tenere memoria della forma della terra che viene prelevata e mischiata alla resina, prima di fare il positivo. Il risultato è una famiglia di quadri che in alcuni casi formano un trittico, in altri restano opere a sé stanti. Come titolo portano due numeri di otto cifre: le coordinate del loro distacco.

 

Non è un caso che Andrea dal Corso abbia scelto per la sua prima opera una porzione della terra su cui è cresciuto: basta usare le coordinate che sono il titolo dell'opera del trittico per vedere che la terra è stata incorniciata a nord dei Colli Euganei, vicino al fiume Bacchiglione, dove l'artista ha vissuto l'infanzia e l'adolescenza. Questo ci aiuta a capire l'importanza del titolo: l'autore sceglie di non assegnare un significante concettuale all'opera. In modo concreto e coerente alla sua poetica, fa in modo di mantenere un identificativo oggettivo, chirurgico: le coordinate di latitudine e longitudine. Così ogni opera di questa serie ha un nome riconoscibile come in una parentela, e allo stesso tempo unico, inequivocabile. La prima, 45.425785, 11.739720, è un trittico. Tre quadri di uguale dimensione, una trinità terrena ed elementale, un trivio verso tre metri di fango che non si possono più calpestare, perché si sono eretti e hanno preso voce.

 

Tra monito di chi siamo e reliquia di chi potremmo non essere più, tra opera concettuale e concreta arte elementale, l'opera di Andrea dal Corso diventa arte ctonia, dove la superficie diventa verticale per offrirsi come soglia per un'esperienza quasi sciamanica, nella quale la terra viene usata in modo concreto per guarire lo iato tra la natura animale e quella artificiale dell'essere umano.