Gabriele

Gabriele

«Il nostro ieri non sarà mai come il nostro domani, perché niente permane, se non un perenne mutare» (Percy Bysshe Shelley, “Mutability”)

Certe statue non si limitano a essere apprezzate per la loro bellezza, la loro sterile armonia delle forme. Alcune volte, come nel caso di Andrea Dal Corso, si pizzicano altre corde. Quelle della riflessione, dell’inquietudine interiore, del magma su cui si poggia l’esistenza stessa.

Busti di persone comuni, Gianluca, Giovanni, Lele, Marco, Paolo, trasposti su terracotta con straordinaria verosimiglianza nella loro semplicità: una volta realizzato il modello viene sottoposto all’azione corrosiva di acidi e sali minerali, fino a renderlo quasi irriconoscibile. Ogni opera alla nascita possiede una potenzialità interiore determinata dalla densità salina del gesso che si palesa nei giorni successivi alla realizzazione in genere nei primi 15-20 giorni: ne risultano cristallizzazioni che sembrano ferite su corpi martirizzati, smembrati, disfatti, frammentati, sciolti;

Il motivo che porta l’artista ad eseguire una tale operazione è la consapevolezza di non poter controllare eventi come il tempo ed il suo continuo ed incessante logorio. Il suo lavoro è una costante ricerca di materializzare il tempo tramite azioni volontarie ma non pienamente controllate per far riflettere l’osservatore su una visione più globale di uno spazio tempo relativo.

Come scrive Achille Bonito Oliva sull’opera di Marc Quinn, con cui le sculture di Dal Corso trovano affinità: “Si scopre che l’opera non è soltanto creazione ma anche riflessione sul paradossale desiderio di immortalità che l’arte cova dentro di sé e che è indispensabile la pratica di un linguaggio, per sua natura portatore di immobilità e dunque di morte.”

La figura umana, vissuta come apparenza e artificio, da usare per ricomporre e formare un nuovo soggetto, un nuovo Io, viene adoperata come supporto per realizzare l’opera in un  intreccio tra gestualità e caso.

Questa operazione dona una dignità e un valore aggiunto all’opera poiché l’opera diventa fautrice di se stessa e si ribella alla modellazione fatta da spatola e scalpello, diventando entità a sé stante, non relazionata ad alcuna altra entità se non quella della sua stessa esistenza.

Trae ispirazione dalla scuola di pensiero dell’ Action Painting, da Jackson Pollock e da Franz Kline: la materia non può essere controllata pienamente, altrimenti l’anima dell’opera non potrà mai estrinsecarsi pienamente. L’autore non avrà mai la piena padronanza dell’artefatto, pertanto non potrà mai sentirla come opera pienamente sua.

Andrea Dal Corso abbraccia il disfacimento, lo interiorizza, attuando la scrittura automatica della scuola surrealista trasfiguranta in campo visivo.

Si contrappone all’estetismo, alla concezione di arte come creazione, secondo cui l’opera d’arte assume un valore assoluto, perché non è in funzione di nient’altro che di se stessa, ha solo valore in sé, in quanto prodotto artistico bello, e l’artista si realizza nella perfezione formale della creazione artistica.

Dal Corso sviluppa un’estetica che pur partendo da idee michelangiolesche, reminescenza degli studi classici conseguiti a carrara, ne è diventata l’antitesi.

Sembra rovistare fra le macerie di un passato i cui fasti sono stati dimenticati e, con la stessa dedizione e intensità con la quale ha raccolto e riassestato i cocci di ieri, vi si avventa sopra per demolirli.

La defigurazione attuata da Dal Corso non ha nulla di mortifero, ma è il principio stesso dell’esistenza. Un’esistenza che si oppone a qualsiasi opzione statica di mimesi e un inno alla vita come energia sprigionata dalla forma.

Decostruisce le logiche sterili e leziose dell’estetica contemporanea: le sue sculture delicate e sgretolabili, diventano l’idioma perfetto per raccontare della fragile identità dell’individuo contemporaneo.

Ne emerge un’idea dirompente per l’epoca in cui viviamo, la quale sacralizza il corpo e l’immagine che lo scultore invece distrugge. Al culto del corpo si sostituisce un’idea diametralmente opposta.

La pelle umana si trasforma così nella tela di un pittore, in un canovaccio spoglio, nel punto di partenza che riscopre le forze ataviche del caos. La pelle, come una superficie piana, è lo specchio deformante che ci ricorda chi siamo e che indaga le potenzialità del corpo. Di fronte a questa alterazione lo spettatore è portato a domandarsi quanta rilevanza ha, nella definizione della nostra identità, quella immagine che vediamo riflessa nello specchio. E’ possibile superare, oltrepassare il corpo, andare oltre l’epidermide e creare una nuova instabile forma? Il senso di identità viene rimesso in gioco e non è più legato al corpo.

C’è quindi il ritorno all’idea platonica del corpo come gabbia e dell’anima come elemento portatore di carica vitale, energica, rivoluzionaria, convinzione portata poi avanti da tutta la mistica cristiana.

Il suo compito è quello tutto cinetico di mostrare il flusso vitale nella sua dirompente, luciferina mutevolezza: segue in questo il destino del ritratto baconiano, un ritratto che non può più badare alla fievole crosta del mondo, delle superfici e dei volti, ma deve scoprire la forza primigenia del caos: non tanto corpi in de-composizione quanto, piuttosto, corpi in composizione, alla ricerca di una nuova forma.

A un momento storico critico e frivolo come il nostro, è facile rifugiarsi in una realtà fittizia e giocosa, cibarsi di simboli ridondanti, inflazionati e per questo ormai svuotati di significato. Andrea Dal Corso si accolla invece questo senso di distruzione e lo indaga. Appropriarsi dell’orrore è l’unico modo -forse- per vincerlo.

 

Comprendere i mutamenti fisici e sofferenti della materia forse è l’unico modo per descrivere la ricerca materica compiuta dall’artista.