"Going On"

"Going On"

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Going On   2016 / 2017

Il lavoro Going On tratta le nostre relazioni con l’artificialità, che si manifesta come media e come ambiente.

Lo spazio artificiale è costruito secondo una logica che non è direttamente indirizzata ad accoglierci, bensì è per prima cosa relazionata all’utilità economica, un ottica di ottimizzazione di spazio per potenziale produttivo.

I media dalla fine del ventesimo secolo hanno sancito l’affermazione delle comunicazioni come variabile essenziale nella competizione economica. Il sistema economico diventa simbiotico con il tessuto relazionale in continuo inspessimento grazie alle tecnologie odierne. A causa dell‘eccesso di informazioni i fruitori si passivizzano e alienati dalla sovrastimolazione, acquistano un atteggiamento blasé nelle interazioni sociali, persino della sfera intima.

Il mio lavoro è un’occupazione dello spazio artificiale con un gesto umano, semplice ed evocativo. E’ una presenza, il clone di un momento, una fotografia che impersona il suo soggetto che ci offre un contatto genuino. E’una necessità che diventa fisica e che si relaziona con noi, diventando una variabile tra i fattori condizionanti nello spazio artificiale.

 

Going On   2016 / 2017

The work Going On inspect our relationships with the artificiality, that manifest itself through mass media and environment.

The artificial space is built according to a logic that is not directly created to fit us, on the contrary it is for before thinked for the economic utility, an optics of optimization of space for  productive potential.

In the same way, the media from the end of the XX century have enacted the affirmation of the communications as an essential variable in the economic competition

The economic system becomes symbiotic with the social texture  that is in continuous thickening, thanks to the today’s technologies.

Because of the excess of information the users become passive and alienated by the overstimolation, they get a blasé attitude in the social interactions, even of the intimate sphere.

My work is an occupation of the artificial space with a human, simple and evocative gesture.

It is a presence, the clone of a moment, a photo that personifies the  subject that offers us a genuine contact.It is a necessity that becomes physical and that want to relate with us, becoming a variable among the conditioning factors in the artificial space.

 

Testo critico a cura di Francesca canfora 08/2017 

Frammenti di corpi, arti che sbucano dalle pareti e mani in attesa di un gesto di affetto o di un contatto occupano fisicamente ed emotivamente lo spazio nel progetto espositivo di Leo Gilardi.

Sono sculture generate da una fotografia che vuole oltrepassare i propri limiti, imposti dal medium stesso, andando oltre la mera rappresentazione bidimensionale per raggiungere e cercare di toccare, in modo tangibile, l’osservatore.

L’immagine fotografica della pelle viene plasmata, piegata e assemblata sino a farle prendere letteralmente corpo, tramutandola in carne e metaforicamente in essere umano.

Le opere di Gilardi sembrano indirettamente evocare il termine expeausition, in francese unione di pelle ed esposizione, introdotto da Jean-Luc Nancy. Avvalendosi della metafora fotografica, analogamente alla pellicola su cui rimane impressa l’immagine, il filosofo afferma che sulla pelle si manifesta l’identità, come anche l’immagine di sé che si intende dare.

La pelle è un sottile foglio di tessuto che avvolge il corpo. Fisiologicamente essa è un organo piuttosto semplice: dal punto di vista sociale e psicologico, invece, è un organo altamente complesso. 1

L’epidermide è infatti un luogo di confine, separazione e congiunzione non solo con il mondo e l’ambiente circostante ma anche il filtro delle proprie storie personali e degli stati emozionali.

Nel loro offrirsi ed esporsi, le mani nude, protese verso lo spettatore, cercano di infrangere simbolicamente quelle barriere sempre più esasperate dallo sviluppo delle tecnologie e dall’eccesso di comunicazione e informazione propri della società contemporanea.

La scarsa attenzione e sensibilità verso il prossimo, la mancanza di empatia data dal sovraccarico di stimoli cui è sottoposto l’uomo metropolitano, già teorizzato all’inizio del secolo scorso dal sociologo tedesco Georg Simmel, oggi risulta infatti esponenzialmente amplificato dallo sviluppo del web, di internet e dei social media.

Queste presenze fragili e prive di materia, eppure cariche di peso visivo e psicologico, intendono  così ribadire quanto sia necessario e importante il bisogno di contatto umano, dando la precedenza alle persone e ai rapporti reali in un’epoca invece dominata dall’effimera e illusoria condivisione virtuale.

1 A. Favazza, Bodies Under Siege: Self-mutilation and Body Modifcation in “Culture and Psychiatry”, Baltimora, The Johns Hopkins University Press, 1996, p. 148.

 

Testo critico a cura di Guido Costa 08/2016

Pochi altri territori artistici possono dirsi felicemente schizoidi così come  la fotografia. In essa, quasi per suo statuto costitutivo, convivono più anime, ciascuna delle quali con una propria voce, un suo metodo e sue precise aspirazioni.

Il peso dell’altro (di ciò che essa non è), ha da subito caratterizzato la sua tecnica, quasi fosse impossibile pensare ad una fotografia pura, indipendentemente da una sua destinazione seconda.

Dunque, fotografia come supporto della pittura, come strumento per la narrazione, come testimonianza certa della realtà delle cose: insomma, sempre e comunque come qualcosa il cui fine fosse da ritrovare in un altro da se, in una sua vocazione seconda e subordinata.

Tale incertezza del fondamento ha provocato non pochi danni anche a livello epistemologico, rendendo problematica la sua emancipazione da ruoli sempre e comunque ancillari.

Nel tempo tale debolezza ha spesso fatto dei fotografi individui insicuri e controversi, perennemente in bilico tra libertà e costrizione, tra arte e artigianato, tra sublime disinteresse e commercio. Da qui, da questa sua fragilità e ambiguità, è  però nata anche la sua grande forza e la sua capacità nell’oltrepassare costantemente i propri confini, ridefinendosi in un continuo esperimento di nuovi territori espressivi.

E’ raro trovare un fotografo pacificato nel suo fare fotografia: la sua opera riuscita sarà sempre quella di la da venire, di regola non più fotografica. Leo Gilardi non si sottrae a tale scenario, ma anzi, ne fa pre-requisito espressivo per uno dei connubi più difficoltosi mai sperimentato dall’arte fotografica: quello con la tridimensionalità e la scultura.

Che ci fosse insoddisfazione verso l’immagine piatta e la bidimensionalità della carta, appare  chiaro fin dai suoi primi passi di fotografo quando, ritagliando e sovrapponendo immagini stampate su materiali non convenzionali, cercò di dare spessore e materia al ritratto, facendone astrazione e gioco volumetrico guidato dai polimeri. Un po’ come avvenne negli anni ’60, quando l’entrata sulla scena dell’arte di nuovi ed inediti materiali, tutti sottoprodotti del petrolio, ebbe come risultato una vera e propria rivoluzione espressiva, tutta brillanza e movimento, che alimentò per più di un decennio ogni sperimentalismo cinetico, psichedelico e op-art.

Mezzo secolo dopo, per un giovane artista come Leo, tutto ciò non è che consapevolezza storico-critica, e una sorta di puro rito iniziatico, utile tuttalpiù nell’abbandonare certe ritualità dello scatto in favore di una maggior disinvoltura nel fare arte. In Leo, poi, la sua indole riflessiva, il gusto innato per l’ordine sperimentale e persino il suo essere di poche parole e molti fatti, hanno costruito tutto il resto, portandolo, al termine di un lungo periodo di tentativi mirati, alla realizzazione di un piccolo numero di sculture fotografiche, finalmente riuscite.

Non è semplice produrre opere di quel genere, e non soltanto per gli ovvi problemi tecnici che comporta il voler dare volume a ciò che nasce privo di esso: esistono programmi appositi capaci di risolvere il problema con millimetrica esattezza. Ma non è questo il punto, come non è la verosimiglianza l’obbiettivo dei suoi lavori.

Esiste un sottile confine tra le diverse dimensioni percepite, confine che, qualora non venga rispettato, condanna l’opera al cattivo gusto della caricatura o, peggio ancora, alla palude, vagamente ripugnante, dei trucchetti artistici low tech. Al contrario, le opere di Leo Gilardi ambiscono ad essere buona fotografia e altrettanto buona scultura, tentando strenuamente di abitarle entrambe pur nel loro limite reciproco. Destinare così tanta attenzione alle articolazioni tra le membra del corpo umano, per esempio, non significa semplicemente risolvere problemi di distorsione o di proporzione tra le parti, ma risponde ad una consapevole lettura “artistica” del tutto, in cui l’armonia degli elementi ha a che fare più con l’dea, che con la sua manifestazione ultima quale realtà.

Ed eccoci, nuovamente, all’alto tasso schizoide dell’operazione, operazione in cui gli strumenti espressivi della tradizione si piegano a parlare linguaggi diversi, talvolta antagonisti. Come scultore, Leo Gilardi pensa da fotografo, così come da fotografo si trova costretto a ragionare secondo le leggi della scultura. Questi suoi primi tentativi, ancorché assai “contemporanei” secondo il gusto ed il linguaggio della più stretta attualità, conservano però un sapore ben definito di classicità, e questo, una volta tanto, al di fuori della schizofrenia, e perfettamente distillato da entrambe le discipline.

Scultura e fotografia finalmente si parlano, e tutto ci fa sperare in un dialogo tra le parti sempre più soddisfacente e produttivo in cui, da ultimo, la meccanicità delle discipline espressive si risolverà nell’assoluta semplicità del bello.