Vanessa Vettorello

Vanessa Vettorello

Destinazione

Mumbai - India

Periodo
-
Tornata
Il progetto (e info su ente)

"Bolliwood Talkies" è un progetto fotografico che indaga l'identità contemporanea del cinema indiano. È un work in progress iniziato nel 2011. La prima parte del progetto si concentra su com'è cambiata la fruizione cinematografica dopo l'arrivo dei multiplex a Mumbai: cos’è rimasto a partire dai vecchi cinema passando per i cinema illegali e i cinema itineranti arrivati dai villaggi in città negli ultimi anni.

Il secondo capitolo, ancora da affrontare, analizza invece la realtà commerciale dei multisala e dei centri commerciali che li ospitano attraverso i ritratti ambientati delle persone coinvolte. È la documentazione di quello che scomparirà in pochi anni come i vecchi cinema che stanno chiudendo i battenti ad un ritmo impressionante e allo stesso tempo il racconto di un’identità culturale.

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Ente invitante

What About Art? - Agenzia di management artistico, uno studio-residenza artisti e uno spazio d'arte fondati da Eve Lemesle nel 2009 a Mumbai in India. WAA fornisce Arts Management, consulenza e produzione a sostegno di organizzazioni d'arte, curatori, artisti e società di mostre e progetti artistici legati all’India e all'estero. Recentemente WAA ha inaugurato i suoi spazi di soggiorno e studio con l’intento di creare ambienti di lavoro accessibili agli artisti.

whataboutart.net

Intervista

di Francesca Manfredi

Vanessa Vettorello, trentenne torinese, ha studiato Psicologia e nel 2008 ha vinto una borsa di studio allo Ied di Torino per il corso triennale di Fotografia, coordinato da Enzo Obiso. Dal 2011 alterna lavori commerciali a lavori personali a lungo termine. Si occupa di ritratti ed eventi in ambito corporate, collabora stabilmente con grandi aziende che si occupano di food and beverage ed è co-fondatrice di “Quattroperdue”, un collettivo che si occupa di wedding reportage cercando di rompere i canoni classici della fotografia di matrimonio. Da sempre appassionata di cinema, dal 2011 fa avanti e indietro dall’India per sviluppare il progetto a cui sta lavorando, Bollywood Talkies. “L’India è un posto magico, ha ispirato il mio progetto e permesso al mio lavoro di crescere oltre le mie stesse aspettative. Cerco di tornarci appena posso...anche se la prima volta stavo quasi per morirci. Colpa di una brutta gastroenterite”, racconta Vanessa. “Perdere 7 chili però non mi ha fermato, ed eccomi qui, per l’ennesima volta.” Vanessa è a Mumbai fino al 30 aprile, con il sostegno di Movin’Up, per portare a termine la seconda fase di Bollywood Talkies.

Com’è nata l’idea di una serie di ritratti all’interno dei cinema di Mumbai?

Bollywood Talkies è nato nel corso della mia tesi di laurea in Fotografia, grazie all’ex direttore dello IED Cesar Mendoza, che ha portato la mia classe a realizzare un progetto fotografico su Bollywood. Quando ho iniziato le mie ricerche sul tema ho scelto, in modo naturale e automatico, di visitare i tanti cinema in città e approfondirne le dinamiche.

Nella descrizione del tuo progetto lo definisci una “costruzione dell’identità culturale attraverso scatti”. 

Il mio lavoro racconta un fenomeno che appartiene, in realtà, a tutte le grandi città: i cambiamenti dovuti all’arrivo di grandi aziende. Accade nel cinema come in molti altri campi, dal cibo all’artigianato: fast food contro bar, centri commerciali contro piccoli artigiani, supermercati contro piccoli produttori. È l’identità dei non luoghi, il fascino dell’anonimo o del computer di casa, contro la forte componente sociale, l’intimità dei luoghi e la loro forte personalizzazione. Le ragioni della scomparsa delle vecchie sale single screen sono molteplici: la globalizzazione, che dagli anni ’90 ha modificato il tessuto commerciale e culturale, la diffusione della tv prima e di Internet poi, la problematica di chi non vuole più continuare a fare i vecchi lavori che facevano i genitori o i nonni. In India il cinema rappresenta un fenomeno molto forte e radicato. È stato, da sempre, un elemento sociale: rappresentava un momento di aggregazione, uno strumento per interpretare la realtà, per alcuni l’unica fonte di informazioni. Attualmente non è più così, soprattutto in una città come Bombay, dove, negli ultimi anni, le multisala hanno rivoluzionato il mercato cinematografico. Una volta, un indiano che conobbi in aereo mi disse: “Ma cosa ci vai a fare nei vecchi cinema? Sono brutti, scomodi, ci vanno solo i poveracci”. Il cinema, che un tempo raggiungeva tutti, indistintamente, ora ha la sua identità specifica, e viene frequentato da un certo tipo di persone ed evitato da altre. Il pubblico è più frammentato, si divide tra i vecchi cinema, i multiplex, il salotto di casa o le video parlors. C’è una strana somiglianza tra la visione nei multiplex, la fruizione domestica e il cinema degli slum: tutti lavorano sul principio dell’esclusione, più che dell’inclusione.

I vecchi cinema sono stati l’oggetto d’indagine della prima fase del tuo lavoro.

Questi cinema hanno significato molto di più delle sole proiezioni: hanno formato l’identità di appartenenza e la cultura. Dovrebbero essere protetti e riconosciuti come un luogo di eredità storica, mentre ora sono malconci, sobbarcati di tasse e, infine, venduti a grandi speculatori.  Nella prima parte ho voluto raccontare questi ambienti e le persone che lavorano al loro interno: chi li gestisce, chi li pulisce, chi proietta i film, chi li frequenta. Ho voluto, semplicemente, dare un volto a delle persone.

È questo che intendi quando parli di un “ribaltamento di prospettiva rispetto ai lavori di documentazione dell’industria cinematografica”?

Sì. Bollywood è sulla bocca di tutti: ci sono moltissimi lavori fatti in precedenza sull’industria, sugli anni d’oro dei vecchi cinema, sui cinema itineranti nei villaggi, sulla decadenza delle sale e su quelle abbandonate. Ce ne sono molti meno che raccontino la realtà del cinema attuale, la sua complessità dal punto di vista di chi ci lavora e di chi sceglie di guardarlo, che decidano di mettere a fuoco la persona e il suo ritratto.

Com’è nata la collaborazione con l’agenzia che ti sosterrà, What About Art?

Dopo la prima volta a Bombay volevo trovare un modo per tornare, per vivere quella realtà per un po’ più di tempo. Ci sono tornata altre due volte, e per il mio terzo soggiorno cercavo un posto più tranquillo di un ostello o di un albergo, in cui potessi lavorare. Cercando tra le residenze artistiche a Mumbai ho trovato questa associazione che mi hanno subito accolta, anche perché hanno diversi collaboratori che si sono occupati del progetto Cinema City.

Mumbai. Descrivila a chi non c’è mai stato. 

Al primo impatto, la definirei scioccante e terrific. Ma è un errore giudicarla in fretta. E’ una città piena di contraddizioni: la cruda povertà e la ricchezza sfacciata che convivono nella stessa strada, la forte influenza commerciale e la tradizione che si scontrano, il business della finanza e il barbiere sul marciapiede, le ragazze in minigonna e le donne in sari, i rikshaw e i suv, i locali all’ultima moda e le bettole, la sporcizia dell’esterno e l’attenzione maniacale degli interni, le gioiellerie e gli slum... È una città moderna: non rappresenta l’India, ma l’unione di tante culture e religioni differenti. Una metropoli in cui convivono tanti paesi diversi. Non so se ci vivrei in pianta stabile: forse è troppo per me, abituata a una città come Torino. Mumbai ogni volta mi spaventa, e allo stesso tempo mi attira. Scoprire questa città è un’esperienza piena, che coinvolge tutto il corpo. Mi viene sempre in mente Napoli, quando penso a Bombay; anche se non c’è la pizza, il cibo è favoloso. Per me è un po’ casa: dopo Torino, è il posto in cui sono stata per più tempo.

Che cosa ti aspetti da questa esperienza?

Di approfondire ancora meglio la conoscenza su un tema così complesso e variegato: scattare in altri luoghi, come i multiplex e le video parlors, sarà completamente diverso. Mi aspetto di essere sorpresa dalle persone e dai luoghi che incontrerò. Il mio lavoro è quello di indagare, conoscere e dare la possibilità agli altri di vedere ciò che ho visto io nel modo in cui l’ho visto. Ho scelto questo mestiere per avere la scusa di entrare con la mia macchina in luoghi dove da turista non potrei: non riuscirei a fare tutte le domande che faccio, a guardare negli occhi ogni persona, a scrutare e osservare. Sembrerei una turista troppo curiosa, un po’ fuori di testa. Ma forse, in fondo, è proprio quello che sono.

Resoconto

Vanessa, bentornata! Allora, raccontaci questi due mesi a Mumbai.

L’esperienza è stata favolosa, per quanto impegnativa. Ho lavorato tutti i giorni a pieno regime, e non sono mancate le difficoltà, tra cui un caldo folle durante l’ultima settimana di permanenza. Io e Pierfilippo, il videomaker che mi ha accompagnato, abbiamo approfondito la realtà dei single screen, quella dei multiplex e quella delle video parlours, mischiandole tra loro. È quello che rimane nel mio editing finale, in cui le realtà si contaminano e si influenzano a vicenda. In più, abbiamo realizzato delle videointerviste, coinvolgendo i proprietari e i manager. Si è rivelato molto utile, sia per comprendere le dinamiche interne, sia dal punto di vista relazionale.

Come hai trovato la città?

Mumbai cambia a una velocità incredibile: in due anni è diventata ancora più ricca di contrasti. Chi lavora nel cinema e nella finanza adesso abita a Bandra, il quartiere dove soggiornavamo anche noi. Bandra è un ex villaggio: nel giro di vent’anni è stato trasformato completamente da un boom edilizio incontrollabile. Stanno sorgendo ovunque locali e bar, che cercano di raggiungere lo standard occidentale. Per muoverci, questa volta, abbiamo usato il treno: comodissimo, puntuale e crocevia d’incontri.

Come si è svolta la tua ricerca?

Se nelle fasi precedenti i single screen erano stati i protagonisti, questa volta il lavoro è stato molto più ampio. I vecchi cinema stanno lentamente morendo: se non li avessi vissuti negli anni precedenti, quando ancora si percepiva l’atmosfera degli anni di gloria, non li avrei compresi a pieno. Sono sempre più desolati, e il mito del vecchio cinema indiano sta scomparendo. Dall’ultima volta hanno chiuso tantissime sale. Quasi tutte, poi, sono passate al digitale - tranne il New Roshan nella zona di Grant Road, che continua ancora con la pellicola, seppure sia uscita di produzione. Ho scoperto alcune eccezioni, però. Il Bharatmata, ad esempio, famoso cinema in Lower Parel che trasmette solo film in marathi, o il Deepak, che si è rinnovato completamente, con due nuovi giovanissimi direttori che lo stanno trasformando in un centro internazionale di cinema d’autore. Ma è stato altrettanto bello conoscere i multiplex. Pur essendo molto simili ai nostri, hanno le loro peculiarità indiane. Mi ha colpito tantissimo la quantità di cibo che si può assaggiare prima di entrare in sala. E il comfort delle sale lounge, sul modello americano, con sedili reclinabili.

Delle video parlours, invece, cosa ci racconti?

Sono state l’avventura più eccitante. Dall’esterno non le noteresti mai, sembrano dei semplici negozi. Varcando la tenda, però, si apre un mondo completamente diverso. Questa volta ne abbiamo viste tante, in diverse zone della città. Sono magiche: racchiudono dentro di loro quello che una volta c’era nei vecchi cinema, quella componente emotiva che accompagnava la visione dei film. Purtroppo, anche queste sale stanno chiudendo, per problemi di legalità. Ci avrei voluto passare ancora più tempo.

Quali sono state le difficoltà maggiori?

In India la vita è movimentata. A volte diventa difficile persino trovare la carta igienica, perché in molte aree di Mumbai non ci sono supermarket. Bisogna conoscere bene i negozi per sapere dove cercare ciò di cui si ha bisogno. In India, poi, non esistono indirizzi precisi, con la via e il numero: ci si orienta con le strade e i palazzi, e le indicazioni risultano a dir poco ingarbugliate. Ordinare d’asporto, ad esempio, è un’esperienza mistica, che si conclude dopo una buona mezz’ora al cellulare davanti alla finestra, cercando di guidare il povero fattorino di turno, che parla mezzo hindi e mezzo inglese. Nel corso del lavoro abbiamo avuto a che fare con diversi imprevisti. La perdita del cellulare di Pierfilippo, con tutte le indicazioni e le mappe salvate, il morso di un gatto all’interno di un cinema, problemi con i collaboratori locali, per dirne alcune. Tuttavia, la difficoltà più grande, da donna, è quella di farsi ascoltare e rispettare. Ho dovuto tirare fuori un lato del mio carattere molto forte e determinato.

In che modo questo periodo influirà sul tuo futuro?

Quest’esperienza, secondo me, ha creato le basi per dei nuovi lavori. E’ interessante approfondire una tematica grazie un progetto a lungo termine come questo, che permette di avere il tempo di comprendere, di non dovere buttarsi a capofitto cercando di finire in una settimana. Il tempo della comprensione e della conoscenza è lento. Non si può imparare una lingua in dieci giorni; lo stesso vale per la realizzazione di un progetto che approfondisce una cultura molto diversa dalla nostra. La modalità di entrare in contatto attraverso le interviste è una buona pratica che permette di creare lo spazio per il ritratto. È un lavoro culturale che parte dall’approfondimento di sé stessi in relazione al luogo, prima che dal luogo stesso.

di Francesca Manfredi